In un paese su cui grava un inveterato conservatorismo, in cui le rendite di posizione incancreniscono la maggior parte delle spinte innovative, fagocitando anche la sfera dei diritti civili (potremmo chiamarle “rendite di posizione etiche”, perché in fondo esprimono la stessa asfittica pigrizia a far muovere il pensiero in avanti), l’approvazione della legge sul biotestamento si inserisce, una volta tanto, in una congiuntura di eventi che potrebbe permettere di renderla una conquista stabile e non parziale.
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È infatti in corso, come è noto, un processo dall’enorme valore giuridico e simbolico, quello a Marco Cappato, autodenunciatosi per aver accompagnato Fabiano Antoniani, in arte Dj Fabo, in una clinica svizzera, consentendogli così di porre fine alle sue sofferenze.
L’intreccio tra quanto avviene nei palazzi della politica e in quelli della giustizia può essere compreso se si guarda retrospettivamente alla vicenda che, nel 2006, vide come protagonista Piergiorgio Welby.
Dopo una lunga battaglia per ottenere il riconoscimento al diritto di autodeterminazione in tema di fine vita, senza dover essere sottoposto ad accanimento terapeutico, Welby morì il 20 dicembre 2006, grazie al decisivo aiuto del dottor Mario Riccio, che dopo averlo sedato staccò il respiratore che lo teneva in vita.
Riccio venne incriminato dalla procura di Roma con l’accusa di “omicidio del consenziente”, ma il Giudice per l’udienza preliminare dispose il non luogo a procedere perché il fatto non costituiva reato. Il proscioglimento del dottor Riccio sancì quindi, da un punto di vista giurisprudenziale, il diritto del paziente a rifiutare qualsiasi tipo di trattamento sanitario, anche quelli necessari per garantire la sua sopravvivenza.
Il dispositivo della sentenza richiamava esplicitamente il secondo comma dell’articolo 32 della Costituzione, che recita: “Nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge. La legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana”.
Di fatto, quindi, la parte della legge sul biotestamento che sancisce il diritto a rifiutare le cure da parte del paziente certifica da un punto di vista normativo e politico quello che era già stato stabilito per via giurisprudenziale, elevandolo però a diritto assoluto e valido erga omnes.
Ovviamente la legge sul biotestamento contiene anche molto altro, a partire dalle disposizioni anticipate di trattamento (DAT), che prevedono la possibilità di decidere in anticipo a quali cure volersi sottoporre e quali rifiutare in previsione di una futura incapacità di autodeterminarsi.
Tuttavia, l’eco mediatica del caso Welby e del processo al dottor Riccio e il successivo proscioglimento di quest’ultimo permisero non solo di risvegliare la coscienza collettiva sul tema del fine vita, dando visibilità alle battaglie condotte per anni dall’associazione Luca Coscioni, ma anche di ottenere un’importante legittimazione giuridica al principio per il quale un paziente non può essere obbligato a ricevere alcun tipo di cura.
La battaglia intrapresa da Cappato potrebbe rappresentare quindi un secondo tempo di questo processo di graduale avvicinamento alla legalizzazione dell’eutanasia, che ha come precondizione il coraggio di persone in grado di porre con la forza delle loro idee e del loro dolore il tema al centro del dibattito pubblico (ieri Welby, oggi Fabo e Cappato).
A questo deve far seguito, in considerazione dei tempi ingiustificatamente troppo lunghi della politica, una legittimazione giuridica che viene dai tribunali, ragione per cui Cappato ha scelto la strada dell’autodenuncia esponendosi deliberatamente al rischio del carcere.
Lo ha fatto per dare forza giuridica al suo gesto, per avviare un percorso che, partendo dal dramma di un singolo individuo, possa inscrivere un diritto come quello di porre fine a sofferenze intollerabili nelle carte di una sentenza, per arrivare infine alla legalizzazione definitiva per via politica.
Non a caso, le udienze del processo a Cappato stanno cercando di appurare, attraverso le testimonianze dei parenti e della fidanzata di Dj Fabo, se quest’ultimo avesse espresso in maniera chiara e inequivocabile la volontà di morire.
L’assunto implicito dietro questo iter dibattimentale è che, se così fosse, non si potrebbe condannare Cappato per istigazione al suicidio, perché l’esponente dei Radicali avrebbe soltanto assecondato la volontà di Antoniani.
Ciò significa, infine, che l’autodeterminazione di un individuo in tema di fine vita è sacra e inviolabile. Ovviamente la certificazione di questi principi, e la conseguente assoluzione di Cappato, non basterebbero affatto a rendere legale l’eutanasia.
Questo sia da un punto di vista meramente giurisprudenziale (il processo deve esprimersi sulle responsabilità giuridiche di Cappato ma non interviene sulla legittimità in sé dell’eutanasia, poiché la morte di Fabo è avvenuta in un altro paese), sia da un punto di vista politico.
L’eutanasia è infatti esplicitamente vietata dalle norme italiane, e solo un intervento del legislatore, quindi della politica, può cambiare questo stato di cose. Vale oggi come valeva dopo il caso Welby e prima dell’approvazione del testamento biologico.
Per questo le battaglie dei singoli e delle associazioni sono imprescindibili, ma corrono il rischio di rimanere inascoltate se non trovano una sponda politica. È innegabile che questa legislatura abbia segnato un importante scatto in avanti sul tema dei diritti, con la legge sulle unioni civili e quella sul biotestamento.
Manca all’appello lo ius soli, su cui il governo si è inizialmente impegnato, per poi farlo saltare (salvo colpi di scena) per mancanza di una maggioranza certa (la versione del Pd) o per un mero calcolo politico in vista delle elezioni (come si sostiene da sinistra).
Resta il fatto che questa maggioranza di governo si reggeva su equilibri estremamente fragili soprattutto sui temi etici, con il partito a vocazione cattolica di Alfano a fare da stampella e l’ostilità congenita dei Cinque Stelle ad accordi trasversali su temi condivisi (che fortunatamente, e con merito, è stata messa da parte per la legge sul biotestamento).
In queste condizioni, aver approvato certe norme era tutt’altro che scontato. Sarebbe stato meglio se nella legge sulle unioni civili ci fosse stata anche la stepchild adoption? Sicuramente.
La legalizzazione dell’eutanasia sarebbe stata preferibile al compromesso raggiunto col testamento biologico, che mantiene quel velo di ipocrisia per cui si può rifiutare una cura se si vuole morire, ma si deve emigrare in un altro paese per porre fine rapidamente a una sofferenza per cui la semplice interruzione di una cura non basta? Non c’è dubbio.
Resta il fatto che nel nostro ordinamento è stato finalmente aperto, su questi temi, un varco storico grazie al quale, per via di progressivi miglioramenti, queste norme potranno essere rese il più giuste e complete possibili.
Forse dovrebbe rifletterci chi ritiene che la mancata approvazione dello ius soli sia ragione sufficiente per giudicare questa legislatura un fallimento in tema di diritti.
La decisione politica del legislatore, per sua natura, gode di una sovranità che le permette non solo di scavalcare le azioni eroiche dei singoli, le battaglie delle associazioni e le sentenze dei tribunali, ma anche di cancellare dall’oggi al domani leggi che al momento ci appaiono storiche e scolpite per sempre nell’ordinamento giuridico.
Non lo sono, e le dichiarazioni di oggi di molti esponenti politici rendono chiaro che persino sul fine vita, con determinate maggioranze di governo a partire dalla prossima primavera, una conquista costata decenni di battaglie potrebbe essere cancellata in tempi rapidi.
Gaetano Quagliariello, dai banchi del Senato, stamattina ha affermato: “La via italiana all’eutanasia, che ha il nostro fermo dissenso oggi, con numeri purtroppo insufficienti, lo avrà anche domani, quando un nuovo parlamento vedrà ribaltati i rapporti di forza e una maggioranza di centrodestra metterà immediatamente riparo alle tre grandi storture di questo testo”.
Per avanzare sulla via del progresso civile non si può prescindere da una certa dose di compromesso politico. Chi ritiene che norme come quella approvata oggi abbiano una paternità soltanto civica e non anche politica, nel giro di pochi mesi potrebbe restare, ancora una volta, fortemente scottato.