In questi ultimi anni Roma è stata oggetto di un cambiamento artistico radicale. Per la prima volta, per le strade della città, a fare da padroni non sono stati solo i più noti monumenti e i siti archeologici sparsi nelle aree del centro, ma anche angoli della città estranei al turismo di massa e spesso trascurati dai suoi stessi abitanti.
Quartieri come San Basilio, l’Ardeatino o la zona di Tor Marancia, sono stati letteralmente invasi da opere di street art, realizzate sui muri, gli spazi aperti e le facciate dei palazzi, e utilizzati come la tela grazie alla quale si è smentita quell’immagine negativa, legata alla criminalità o al degrado, che spesso gli si attribuisce.
L’impatto della street art nella capitale romana ha avuto una certa risonanza anche a livello internazionale: quotidiani come il New York Times o la rivista americana Time, si sono spinti al punto da definire Roma “la capitale europea della street art”.
Non è un caso che un simile mutamento coinvolga proprio le periferie. E non è nemmeno un caso che il fenomeno si sia esteso a macchia d’olio fino a coinvolgere altri quartieri, come quello di Primavalle, situato a nord-ovest della città. Dopo l’iniziativa portata avanti dagli artisti di Muracci Nostri, svoltasi quest’estate, nel quartiere romano si è intrapreso un nuovo progetto di riqualificazione urbana, stavolta all’interno del parco di Santa Maria della Pietà.
Quest’area immersa nel verde, è nota per essere stata la sede del manicomio più grande d’Europa. Costruito in loco con l’intento di marginalizzare i pazienti affetti da disturbi psichiatrici e di tenerli lontano dal centro della città, venne chiuso nel 1999.
Il progetto, chiamato Caleidoscopio, è nato da un’idea dello scrittore Maurizio Mequio ed è stato reso possibile di nuovo grazie alla collaborazione degli street artist di Muracci Nostri. “Abbiamo deciso di unire le forze per intervenire in un ambiente difficile come questo – ha raccontato Maurizio a TPI- e realizzare una serie di opere a cielo aperto che possano trasmettere a chi le osserva la capacità di saper vedere il bello anche in un luogo simile, nonostante porti ancora i segni degli orrori del passato”.
L’ambizione dunque è quella di utilizzare l’arte di strada, nelle sue diverse manifestazioni, per valorizzare l’identità di Santa Maria della Pietà lavorando “dal basso”, e restituire così alla comunità un quartiere dal volto rinnovato.
Con il sostegno economico della Asl Rm E, quelli che prima erano dei padiglioni abbandonati, un punto di passaggio da superare distrattamente, ora costringono chi frequenta il parco a fermarsi, e osservare come la partecipazione gratuita di ventotto artisti ha saputo trasformare quello che in molti vedono solo come “l’ex manicomio”, in un luogo di arte e di riscatto sociale.
Dal 15 novembre, sarà possibile vedere i trenta murales ultimati dalla mano di street artist come Luis Gomez la cui opera, simbolo dell’intero progetto, si sviluppa lungo quattro muri, alla cui realizzazione hanno partecipato gli utenti del centro diurno per pazienti psichiatrici “Bambù” e la comunità per disabili “Fuori dal tunnel”.
Tra le numerosi opere, spiccano poi quelle di Carlos Atoche, il ritratto di Alda Merini, il volto sdraiato dipinto dal filippino Jerico, fino al murale ultimato da Monica Pirone insieme ai detenuti del centro di recupero “Macondo”. Il dipinto, realizzato con colori a tempera, ha come tema centrale l’abbraccio, percepito come sinonimo di solidarietà e di accoglienza del prossimo.
Tra una pennellata e l’altra, l’artista ci ha raccontato come per lei non conti tanto il risultato finale dell’opera, quanto la complicità che si è creata tra coloro che hanno partecipato all’iniziativa.
Il muro sul quale sta lavorando dista appena trenta metri dalla struttura che ospita il centro di recupero minorile Macondo. Uno dei ragazzi al suo interno è in detenzione domiciliare da più di un mese; i suoi passi non possono superare di molto il murale, né tanto meno concedersi il lusso di varcare i confini del parco.
Eppure, mentre si avvicina a noi per osservare l’opera e per parlare del più e del meno, ai nostri occhi cessa di essere un detenuto: è solo un ragazzo di diciassette anni, che condivide gli stessi dubbi e le stesse paure dei suoi coetanei. Concretizza il messaggio che vuole trasmettere questo progetto: guardare, attraverso l’arte, oltre gli stereotipi, e smettere di vedere nel malato mentale il pazzo, nel detenuto il criminale, e nella periferia il comodo esempio di degrado.
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