“Poeti non ce ne sono tanti nel mondo, ne nascono soltanto tre o quattro in un secolo. Il poeta dovrebbe essere sacro!”. Sono parole di Alberto Moravia, pronunciate ai funerali di Pier Paolo Pasolini, e sembrano tuttora valide per i pochi poeti che usano la penna, ma – non sembri blasfemo l’accostamento – valgono anche per quelli che usano i piedi.
Lo sport, nelle sue manifestazioni più frequenti, non è materia da poeti. Sport, nella maggior parte dei casi, vuol dire sforzo fisico, sudore, allenamento ossessivo, ricerca della perfezione attraverso la ripetizione maniacale: una serie di termini più vicini alla medicina o al calcolo scientifico che alla poesia.
Eppure, in quei tre o quattro casi in un secolo citati da Moravia, succede che anche uno sportivo, e – orrore! – un calciatore, possa essere un poeta, e che come i migliori poeti riesca senza distinzioni di sorta a toccare l’anima di uomini e donne diversissimi tra loro attraverso la sua arte.
Il 18 febbraio 2017 Roberto Baggio compie cinquant’anni, e se c’è uno sportivo italiano, e ancor di più un calciatore, che proprio per queste ragioni ha meritato l’appellativo di poeta, questo è lui, e basterebbe un’antologia dei suoi goal, e perfino dei suoi goal sbagliati, a dimostrarlo senza ombra di dubbio.
Ma se questi non bastassero, ci sono molte altre ragioni per cui si può dire che Baggio, il cinquantenne Baggio ormai venerato maestro, ha scritto il suo nome in una categoria che trascende quella dei calciatori di palloni e rientra in quella dei poeti laureati.
Lo dimostra il fatto che gli altri poeti (quelli con la penna), gli scrittori, gli artisti maggiori o minori, lo omaggino ripetutamente come uno di loro che per caso abbia scelto un altro mestiere. Lo scrittore uruguaiano Eduardo Galeano scrisse di lui: “Tutto Baggio è una gran coda di cavallo che avanza scacciando la gente in un elegante andirivieni. Gli avversari lo aggrediscono, lo mordono, colpiscono duro. Baggio porta messaggi buddisti scritti sotto la sua fascia di capitano. Buddha non gli evita i calci ma lo aiuta a sopportarli. Dalla sua infinita serenità, lo aiuta anche a scoprire il silenzio, al di là del frastuono delle ovazioni e dei fischi”.
Lucio Dalla gli ha dedicato un’intera canzone dal titolo poco fraintendibile di Baggio Baggio, che sembra descriverlo in quei secondi fatali di Pasadena nel ’94: “L’onda monta, il mare senza sponda cresce, aumenta, il cuore ti si gonfia, chiama, grida, nessuno è sulla riva, il cielo è nero e tu sei lì da solo”.
Roberto Roversi, il poeta che proprio a Dalla offrì la sua memorabile descrizione di un altro campione, Nuvolari, ne parlò in questi termini: “L’unico per cui avrei voglia di scrivere qualcosa è lui. Perché, come Maradona, non gioca, ma danza. E la danza merita tutta la mia ammirazione. Capisco bene che gli allenatori non possano andare d’accordo con lui: è difficile che un portinaio ami il proprietario del palazzo”.
E poi, certo, quell’”Ah, da quando Baggio non gioca più non è più domenica”, che nella sua semplicità esprime un sentimento condiviso da milioni di ammiratori dell’arte, che dal 16 maggio 2004 non hanno più particolari motivi di informarsi sui risultati di Serie A.
Baggio è un poeta perché è l’uomo del “passo in più”, quello che conclude molti, moltissimi suoi goal in un ultimo dribbling del portiere: un gesto solo apparentemente inutile e rischioso che invece è l’essenza stessa dell’arte, dello spettacolo, della bellezza per la bellezza, senza altra utilità che quella di offrire un brivido di piacere al giocatore che lo compie e a chi lo guarda.
Baggio è un poeta per il suo goal alla Cecoslovacchia durante le “notti magiche” di Italia ’90: attraversa il campo come uno slalomista tra le bandierine, i difensori cechi si guardano attorno spaesati e a ogni passo verso la porta risuona il commento del telecronista britannico Alan Parry, che come ha scritto qualcuno si trasforma in Meg Ryan in un crescendo orgasmico di increduli “Oh yes!”.
Baggio è un poeta perché, come un Dante o un Walt Whitman col codino, è stato il cantore di un’intera nazione, il bardo che ha vagabondato tra mille squadre senza appartenere veramente a nessuna, restando sempre solo e soltanto Roby Baggio, quello che anche i tifosi avversari si alzavano ad applaudire, quello che quando indossava la maglia azzurra aveva addosso lo sguardo innamorato di sessanta milioni di persone.
Nel 1990, quando la sua carriera era ancora tutta ancora da delinearsi e nessuno poteva ancora conoscere la sua attitudine al nomadismo e al suo essere di tutti, il suo trasferimento dalla Fiorentina alla Juventus fu un trauma tale per i viola da provocare scene di guerriglia urbana solitamente riservate ai capi di Stato.
Baggio è un poeta perché come un Leopardi in calzoncini corti ha reso sublime il dolore, ha reso la sconfitta così struggente da farla diventare memorabile quanto una vittoria.
Perché la storia di Baggio, per uno che ha vinto due scudetti, una Coppa Uefa, un Pallone d’Oro (lui e soli altri quattro italiani nella storia), un premio FIFA World Player ed è il sesto giocatore ad aver segnato più goal in Serie A (205), è una storia di sconfitte.
Si può dire che abbia iniziato la carriera con una prima, atroce sconfitta: quella contro il ginocchio destro, che il 5 maggio 1985, con Baggio diciottenne, si frantuma e non sarà più lo stesso per tutta la vita, compromettendo quello che poteva essere un talento ancora più cristallino.
C’è poi l’infinita serie di incomprensioni con i suoi allenatori, che non lo amano e in alcuni casi lo tengono in panchina per mesi anche nei suoi anni migliori, da Lippi a Sacchi, da Capello a Ancelotti, che si oppone al suo acquisto al Parma e anni dopo confesserà: “Sono stato un pazzo. Come puoi rinunciare a uno come Baggio?”.
C’è la lotta di popolo che a ogni competizione internazionale vedeva l’Italia intera contro il commissario tecnico di turno, reo di volta in volta di non concedere abbastanza spazio al Divino: vedi Cesare Maldini, la staffetta con Del Piero e quel numero 18 che sembrava un’offesa, o addirittura – lesa maestà – Trapattoni che nel 2002 decide di non portarlo ai Mondiali, inimicandosi un Paese intero.
C’è il “quasi goal” contro la Francia ai Mondiali del ’98, quello che non entrando in rete ci costò l’eliminazione: un caso più unico che raro di successo mancato che a vent’anni di distanza si ricorda ancora tanto quanto un goal effettivamente entrato in porta, insieme a quel gesto delle mani – “tanto così!” – che potrebbe riassumere un’intera carriera.
E poi, certo, c’è la sconfitta per eccellenza, il momento riassuntivo di tutta la sua epopea che per anni ha fatto pensare al suo codino di spalle, immobile, ogni volta che da qualche radio risuonava La leva calcistica della classe ’68 di De Gregori. Un pallone che sparisce nel cielo americano e un sogno mondiale che finisce, eppure anche qui, uno degli eventi che ha causato più dolore a un intero popolo negli ultimi decenni non viene ricordato con astio, ma con l’affetto clemente e solidale di chi è riconoscente per tutto il resto. “Non è da questi particolari che si giudica un giocatore”.
Sì, perché riguardare le immagini di quel Mondiale del ’94 è come riguardare La vita è bella pur sapendo benissimo come finirà, godendosi i momenti più gioiosi e sperando fino all’ultimo che stavolta il finale per miracolo cambi, che per qualche errore spaziotemporale la palla finisca in rete. “Finisce sempre così. Con la morte. Prima, però, c’è stata la vita”, e quindi il codino, le maglie della Nazionale che ancora commuovono, il commento di Bruno Pizzul, la scritta “R. BAGGIO” dietro la schiena e quei cinque goal uno più importante dell’altro.
Ma in fondo il bello di Baggio è proprio questo, per quanto sia difficile accettarlo razionalmente, anche a vent’anni di distanza: la vittoria non è fatta per i poeti.
I versi più belli di Omero sono quelli per la morte di Ettore, lo sconfitto degno d’onore, non per l’imbattibile Achille. Pasolini (di nuovo) disse di sé: “Sono un uomo che preferisce perdere piuttosto che vincere con modi sleali e spietati. Grave colpa da parte mia, lo so! E il bello è che ho la sfacciataggine di difendere tale colpa, di considerarla quasi una virtù”.
Baggio nelle sue tante sconfitte è stato il calciatore più amato da un paio di generazioni di italiani (e non solo) forse proprio perché, senza nemmeno volerlo, ha insegnato la virtù della sconfitta epica sulla vittoria facile, la superiorità del gesto poetico sul gesto atletico, del fantasista sull’olimpionico.
L’olimpionico, ossessivo e ottuso, vince praticamente sempre, e se perde sente di non valere niente; il fantasista, invece, e Baggio ne è stato il re, spesso rischia un “passo in più” di troppo, una magia troppo azzardata e sbaglia, ma il pubblico applaude. E quando la magia gli riesce, sembra ancora domenica.