Arghillà è un complesso di edilizia popolare sorto a inizio anni Novanta, inerpicato su una collina a un quarto d’ora di strada da Reggio Calabria.
Tra criminalità, prostituzione, furti, immondizia e spaccio di droga, la zona nord del quartiere è la terra di nessuno che, più di ogni altra in Italia, rappresenta il fallimento delle politiche abitative che ghettizzano e deportano i poveri lontano dal centro delle città.
Il quartiere-ghetto è il luogo dove è costretto ad abitare chi è privo di alternative. In un tessuto sociale degradato, povero e privo di stimoli culturali, che alimenta quotidianamente liti violente, furti, spaccio, microcriminalità.
“Chi cresce qui si trova con le spalle al muro: non c’è lavoro, non c’è niente”. Dalla genuinità dei racconti dei suoi abitanti, la vita di quartiere emerge con chiarezza.
“La scuola? Non esiste. Come facciamo senza soldi a pagare i libri, i quaderni, la merenda e tutto il necessario? Finisce che a scuola non ci si va, e uno inizia a fare danni senza neanche capire a cosa si va incontro”.
E ancora, “Uno dice: ‘Vanno a rubare macchine, sono tutti delinquenti!’ Ma perché non ci fanno lavorare? Per forza chi deve mantenere la famiglia finisce a fare queste cose, e va in galera”.
Destino, quello del carcere, che in effetti accomuna moltissimi degli abitanti del quartiere, quasi sempre per la reiterazione di piccoli reati.
“Oggi la legge prevede un concetto di abitare limitato al tetto – spiega Giacomo Marino, operatore sociale della cooperativa Un mondo di mondi – mentre da anni si è affermato in urbanistica e sociologia un concetto di abitare molto più articolato.
Non è sufficiente fornire una casa a norma, è necessario un habitat inclusivo. I ghetti come Arghillà sono un dramma per le persone che li vivono e rappresentano una ricchezza per la ’ndràngheta”.
Cambiano gli scenari (si pensi allo Zen di Palermo, Librino a Catania, Corviale a Roma, le Vele di Scampia, la Barriera di Milano, Begato a Genova, Le Piagge a Firenze, San Paolo a Bari e tante altre periferie) ma il problema è sempre lo stesso: “Se in un quartiere il 40 per cento degli abitanti ha un reddito sotto la soglia assoluta di povertà, quel quartiere diventa un ghetto – continua Marino – e dove l’ambiente è socialmente povero di qualsiasi alternativa positiva, è inevitabile che questi quartieri partoriscano generazioni fragili e facilmente reclutabili dalle organizzazioni mafiose. Soprattutto al Sud, ma non solo”.
Spesso gli assegnatari fanno di tutto per evitare di accettare l’alloggio in questi quartieri, anche se gratuito o quasi offerto dal Comune, perché, a differenza delle amministrazioni, hanno ben chiaro che trasferirsi in quei non-luoghi significherebbe mettere la parola fine a qualsiasi sogno di riscatto sociale, trovarsi fuori dal mondo.
Ad abitarci, quasi sempre abusivamente, ci finiscono le persone più povere, prive di qualsiasi altra alternativa, che non sono neanche riuscite a partecipare al bando per entrare in graduatoria per l’assegnazione.
“Superare i ghetti esistenti è possibile. Moltissimi studi vanno in questa direzione. Come prima cosa bisogna smettere di costruire edilizia popolare: in tutta Italia abbiamo più case che abitanti. Per seconda cosa bisognerebbe rendere i quartieri un mix etnico e sociale.
È dimostrato che la convivenza tra ricchi e poveri non conviene solo a questi ultimi, ma anche ai primi, in quanto altrimenti finiscono per formare a loro volta altri ghetti, militarizzati per difendersi dalle persone che crescendo nel degrado li mettono in discussione”, spiega ancora Giacomo Marino.
Pietro Barabino è un giornalista e videoreporter freelance. Specializzato su tematiche sociali, collabora principalmente con il Fatto Quotidiano, Tv2000 e la redazione genovese di Repubblica.