Giovedì 17 gennaio il Consiglio dei Ministri ha approvato il decreto che disciplina l’attuazione del reddito di cittadinanza.
Si è trattato, in qualche modo, del coronamento di un percorso politico che ha visto, nel tempo, una progressiva identificazione tra questa misura e la forza politica che l’ha promossa, il Movimento Cinque Stelle.
“È l’inizio di un nuovo welfare state” ha annunciato trionfante il ministro del Lavoro Luigi Di Maio alla stampa dopo il via libera al decreto.
L’introduzione di un reddito minimo garantito è stata al centro della proposta politica grillina per anni. I pentastellati hanno più volte posto l’accento sul fatto che molti altri paesi prevedono già nel loro ordinamento forme di reddito minimo.
Ma, soprattutto, si è insistito sulla necessità di introdurre il reddito di cittadinanza per ridurre le disuguaglianze e contrastare gli effetti più distorsivi della globalizzazione e di un modello neo-liberista di società ed economia che ha mostrato le principali crepe dopo la crisi economica del 2007.
Con il reddito di cittadinanza, insomma, lo stato interverrebbe sugli scompensi prodotti da un modello, economico e sociale, che ha portato a una riduzione dei posti di lavoro, a una compressione dei salari e a un allargamento della forbice tra chi ha tanto e chi ha poco o nulla.
Il tutto, come da parole di Di Maio, ponendo al centro “il welfare”.
Bisogna però partire da quello che è l’equivoco di fondo della misura, sorretto da una furbesca operazione di cosmesi linguistica: il reddito di cittadinanza non è un vero reddito di cittadinanza, ovvero un reddito minimo garantito e incondizionato per tutti i cittadini sotto una certa soglia di povertà, ma un ammortizzatore sociale finalizzato al reinserimento lavorativo dei disoccupati.
L’erogazione dell’assegno è quindi condizionata alla ricerca attiva di lavoro, monitorata dai centri per l’impiego, con una serie di condizioni stringenti che vanno rispettate se non si vuole perdere il beneficio.
Tra queste, l’obbligo di accettare almeno una delle prime tre offerte che vengono presentate.
Diversi economisti sono convinti che sia proprio un modello assistenziale incentrato sull’obbligo di accettare offerte di lavoro ad aver contribuito a provocare in alcuni paesi, negli ultimi 20 anni, una significativa perdita di diritti da parte dei lavoratori, unita ad una generale stagnazione dei salari e un aumento delle forme di precariato e di sfruttamento da parte delle aziende.
La tesi è che vincolando il salario minimo all’accettazione di un’offerta di lavoro, venga concesso alle aziende un forte potere ricattatorio nei confronti dei beneficiari della misura.
In un mercato caratterizzato da una scarsa offerta di lavoro, infatti, il disoccupato sarà costretto, pur di non trovarsi senza occupazione e senza sussidio, ad accettare impieghi non solo sottoqualificati rispetto alle proprie competenze, ma anche sottopagati, nonché forme contrattuali estremamente precarie.
Se da un punto di vista statistico, quindi, il RdC così inteso può far salire il tasso di occupazione (come accaduto in Germania con le riforme Hartz), a livello sistemico l’effetto sarà quello di creare un esercito di lavoratori precari e sottopagati (che proprio a causa della precarietà degli impieghi torneranno rapidamente ad aver bisogno del sussidio) e di aumentare così le disuguaglianze (anche qui il caso tedesco conferma questa ipotesi, come vedremo).
Le grandi aziende, secondo questo ragionamento, sono quelle che traggono i maggiori benefici dalla misura: possono offrire infatti contratti meno vantaggiosi a persone in qualche modo costrette ad accettarli.
Un RdC così strutturato, insomma, sarebbe funzionale a creare un mercato del lavoro iper-flessibile e con scarsissime tutele per i lavoratori. Esattamente quel modello di liberismo selvaggio che, sulla carta, il reddito di cittadinanza formato M5s vorrebbe invece combattere.
Infine, un reddito di cittadinanza così inteso è del tutto in linea con le politiche del lavoro portate avanti dai governi Renzi e Gentiloni. Non solo il REI, ma anche il Jobs Act, che ha introdotto una maggiore flessibilità nei contratti e che puntava, in linea teorica, anche ad un rafforzamento dei percorsi di reinserimento lavorativo gestiti dallo stato.
Il RdC non rappresenta quindi un cambio di paradigma rispetto al Jobs Act, bensì il suo naturale completamento.
Il passaggio dal welfare al workfare
Cominciamo col dire che l’affermazione di Di Maio secondo cui il reddito di cittadinanza sarebbe l’inizio di un “nuovo welfare state” è a dir poco fuorviante.
Semmai, politiche come quelle messe in campo con il RdC (e, lo precisiamo, senza che vengano forniti qui giudizi di merito) rappresentano storicamente la fine del welfare state tradizionalmente inteso, e il passaggio al cosiddetto “workfare”.
Con quest’ultimo termine si intende la progressiva affermazione di forme di sostegno al reddito condizionate alla ricerca attiva di lavoro.
Se nel welfare state le prestazioni assistenziali sono incondizionate, l’impostazione del workfare è diversa: l’idea di fondo è che il welfare classico sia troppo oneroso per le casse dello stato, che generi una spesa improduttiva.
Velocizzando il reinserimento lavorativo del disoccupato, invece, la spesa pubblica secondo questa impostazione si ridurrebbe e il neo-assunto, percependo un reddito, pagherebbe più tasse. Gli investimenti dello stato, insomma, da puramente assistenziali diventerebbero produttivi.
Il workfare ha accompagnato la stagione della cosiddetta “Terza via”, ovvero il modello che ha predicato una conciliazione tra politiche di sinistra improntate all’intervento dello stato nell’economia e politiche liberali di apertura al capitalismo e alla globalizzazione.
La dottrina della Terza via si è imposta tra gli anni ’90 e gli anni 2000 nei partiti di centrosinistra di alcuni dei principali paesi occidentali, in particolare nel Regno Unito con Tony Blair, negli Stati Uniti con Bill Clinton e in Germania con Gerhard Schröder.
Tutti questi paesi, e non solo questi, hanno portato avanti un cambio di paradigma dal welfare al workfare. Va evidenziato come, in seguito alla crisi del 2007, proprio la Terza via sia finita sul banco degli imputati a causa del suo eccessivo ottimismo nei confronti dei meccanismi di auto-regolazione del mercato.
Da sinistra, alcuni dei principi cardine della Terza via, tra cui il passaggio a forme di sostegno al reddito vincolate a politiche “lavoriste”, sono stati accusati di aver tolto diritti alle persone minando i valori su cui erano stati costruiti i sistemi di welfare dei paesi europei.
Altro elemento da tenere in forte considerazione è il seguente: le riforme orientate verso un sistema di workfare sono state sollecitate a più riprese da organizzazioni come l’OCSE nonché dalle stesse istituzioni europee, con l’obiettivo di rendere il mercato del lavoro più flessibile.
Molto importante, ad esempio, è stato il lancio della “strategia per l’occupazione” dell’OCSE nel 1994.
Si tratta di una sorta di catalogo di riforme che enfatizza il ruolo degli incentivi al lavoro per aumentare l’occupazione. Nel documento, non a caso, si parla anche della necessità di andare verso la “flessibilità dei salari”, a dimostrazione del fatto che sussidi vincolati all’accettazione di offerte lavorative sono complementari all’introduzione di ampie forme di flessibilità, nei contratti e talvolta anche nelle retribuzioni (che tendenzialmente si abbassano).
Tutto il contrario rispetto a quanto si propone di fare un’altra misura varata dal M5s in questo inizio di legislatura, ovvero il Decreto dignità, che ha l’obiettivo, almeno sulla carta, di rendere il lavoro meno precario.
Il caso della Germania
Tra i paesi che hanno introdotto forme di reddito minimo vincolate a percorsi di reinserimento lavorativo, il caso più interessante da osservare è sicuramente quello della Germania.
Paese che per moltissimo tempo ha seguito il modello bismarckiano del “welfare without work”, con le riforme del cancelliere socialdemocratico Gerhard Schröder, all’interno del cosiddetto “piano Hartz”, la Germania ha virato verso il workfare.
Come ha analizzato in un esaustivo studio sul tema la fondazione Astrid, “per effetto di questi cambiamenti c’è stato negli anni un travaso di beneficiari dalla disoccupazione, che è andata costantemente diminuendo, al mercato del lavoro, sia pure sotto forma di lavoro a bassi salari sussidiato dal reddito minimo garantito, come nel caso degli ormai noti minijobs: impieghi remunerati per un massimo di 450 euro al mese comprensivi di limitati versamenti fiscali e contributivi a carico dei datori di lavoro”.
In sostanza, quindi, l’attivazione di sussidi vincolati alla ricerca di lavoro, in Germania, è andata di pari passo con l’introduzione di forme contrattuali estremamente precarie come, appunto, i miniijobs, il cui utilizzo è aumentato esponenzialmente nel corso degli anni.
Va sottolineato il legame tra le due misure: se si obbliga un beneficiario del sussidio ad accettare delle offerte di lavoro (per non perdere il sussidio stesso), ma se allo stesso tempo si rendono i contratti maggiormente precari, è probabile che il soggetto in questione sarà in qualche modo inserito nel mercato con una posizione (contrattuale e salariale) estremamente debole.
Il che, ovviamente, fa il gioco delle aziende, che possono impiegare più forza lavoro con costi più bassi.
Ciò non toglie che queste riforme potrebbero aver contribuito alla riduzione della disoccupazione in Germania. Seppur con salari bassi e in forme precarie, moltissime persone hanno comunque trovato una forma di impiego.
Tuttavia, sottolinea il report della fondazione Astrid, “nel passaggio dal vecchio modello […] alla nuova cornice di politiche attive e sussidi tutti orientati a sostenere la partecipazione attiva al mercato del lavoro – anche al prezzo di occupazioni mal pagate e precarie come i minijobs – è andata fortemente allargandosi l’area del lavoro povero, a bassi salari, in una spirale al ribasso delle retribuzioni”.
La Germania è forse il paese che ha reagito meglio di tutti alla crisi economica, e oggi ha un tasso di occupazione a dir poco invidiabile.
Tuttavia, sottolinea il report di Astrid, “questa strategia, se ha avuto un indubbio successo sul piano del sostegno alla ripresa economica e della capacità competitiva delle imprese, dall’altro ha determinato un aumento delle disuguaglianze, con effetti particolarmente negativi per le fasce di popolazione più in basso nella distribuzione dei redditi”.
Tirando le somme, quindi, il caso tedesco conferma le tendenze tipiche delle politiche di workfare: più flessibilità, inserimento rapido dei disoccupati nel mondo del lavoro alle condizioni che offre il mercato, buoni potenziali di crescita occupazionale ma anche seri rischi di aumento delle disuguaglianze.
Non serve specificare che non è certo con questa linea a forte impronta liberista (termine che qui utilizziamo, lo ripetiamo ancora, senza dare alcun giudizio di valore) che il reddito di cittadinanza è stato “venduto” dal M5s ai propri elettori.
La continuità tra Jobs Act e reddito di cittadinanza
Come accennato all’inizio, il reddito di cittadinanza per come è stato approvato dall’esecutivo gialloverde non solo si pone in contrapposizione rispetto al Jobs Act varato dal governo Renzi, ma ne rappresenta piuttosto il naturale completamento.
Una delle principali critiche rivolte a Renzi era infatti quella di aver aumentato la flessibilità in uscita (abolendo l’articolo 18 e rendendo quindi più facili i licenziamenti) senza aver al tempo stesso creato un meccanismo “alla tedesca” di centri per l’impiego in grado di ricollocare rapidamente chi si trova senza lavoro, tutelato nel frattempo da un adeguato sistema di ammortizzatori sociali.
Il reddito di cittadinanza va, almeno sulla carta, proprio a colmare questa lacuna.
Un mercato del lavoro flessibile (che implica anche una maggiore flessibilità in uscita per le aziende) è un elemento complementare a politiche di attivazione dei disoccupati come quelle del RdC.
Lo schema è sempre quello della cosiddetta “flexsecurity”, ovvero: più flessibilità per le aziende e un rafforzamento degli ammortizzatori sociali e della capacità dello Stato di “accompagnare” chi perde il lavoro verso un nuovo impiego.
Il reddito di cittadinanza M5s, quindi, può benissimo generare una maggiore occupazione (lo si vedrà solo col tempo), come avvenuto in Germania. Allo stesso tempo, non c’è nulla di scandaloso o di “perverso” nel perseguire una politica di riduzione della disoccupazione attraverso l’introduzione di meccanismi di maggiore flessibilità.
L’unica cosa scorretta è far passare una norma del tutto in linea con quanto hanno sollecitato le principali istituzioni europee e internazionali (quelle contro cui il M5s spesso di scaglia additandole come “poteri forti”) come un cambio di paradigma in grado di rimediare alle ingiustizie prodotte dai mercati, dalle multinazionali, dalla globalizzazione e da altre riforme quali il Jobs Act.
Ai mercati e alle multinazionali politiche di attivazione dei disoccupati come il RdC dei Cinque Stelle piacciono, giusto o sbagliato che sia.
Le politiche di attivazione al lavoro come il RdC funzionano?
Un importante sul tema delle politiche di attivazione dei disoccupati, ovvero il libro intitolato Bringing the Jobless into Work? Experiences with Activation Schemes in Europe and the US, che si avvale del contributo di decine di economisti e studiosi della materia, spiega come queste politiche abbiano “effetti non solo sui disoccupati, ma anche sugli occupati”.
Ad esempio, se i salari si abbassano, chi ha già un lavoro potrebbe trovare troppo complesso cercarne uno migliore, e “ciò implica che anche le sue richieste salariali si abbasseranno”.
Analizzando poi i risultati prodotti da queste politiche nei paesi in cui sono state implementate, questo testo giunge alla conclusione che “i disoccupati vengono effettivamente aiutati ad avvicinarsi all’occupazione, riducendo il rischio di diventare destinatari del sostegno pubblico per molto tempo” (con i conseguenti costi per lo stato).
Tuttavia, viene registrata anche una bassa qualità e una bassa “fidelizzazione” del lavoro: ciò significa che gli impieghi sono spesso “scarsamente qualificati e a bassa retribuzione”, oltre che precari, proprio per il “potenziale di minaccia” legato alla possibile perdita dell’assegno.
Il fattore della precarietà fa sì inoltre che chi ha trovato un lavoro possa perderlo in breve tempo e tornare ad aver bisogno del sussidio.
In ogni caso, per valutare gli effetti sistemici di politiche come il reddito di cittadinanza in salsa M5s la domanda da farsi è: producono crescita economica?
Anche su questo, ovviamente, ci troviamo nel campo delle teorie e delle ipotesi.
Per gli economisti di scuola keynesiana, l’aumento delle diseguaglianze rappresenta uno dei fattori di maggior freno alla crescita economica. Questo perché, per il grande economista britannico John Maynard Keynes, sono la scarsa capacità di consumo della popolazione e la mancanza di domanda aggregata a favorire la disoccupazione, non un mercato del lavoro poco flessibile.
Le teorie di Keynes si pongono in contrapposizione con quelle neo-liberali. Nel 2007, dopo la crisi economica, c’è stato un ritorno alle idee e alle politiche keynesiane. Si è evidenziata cioè la necessità di un intervento più massiccio dello stato per frenare gli squilibri di un mercato lasciato a se stesso.
Ma le teorie di Keynes avevano in parte influenzato anche le politiche del cosiddetto “New Deal” del presidente americano Franklin Delano Roosevelt in seguito alla crisi del 1929.
L’idea messa in pratica da Roosevelt era che solo con un aumento di investimenti dello stato e la creazione di lavoro pubblico in grado di rilanciare salari e consumi si potesse uscire dalla crisi economica.
Riportando questo discorso al tema del reddito di cittadinanza, si può dire che il modello proposto è semmai inverso: non un aumento di posti di lavoro pubblici (una strategia del resto difficile da attuare con l’altissimo debito italiano e le stringenti regole europee sui conti), ma un assorbimento rapido dei disoccupati da parte dei privati.
Storicamente, come visto, quest’ultimo modello è sempre andato a braccetto con un mercato del lavoro più flessibile e con salari tendenzialmente più bassi.
Per evitare tale deriva, l’unica strada è quella di intervenire sui contratti di lavoro, disboscando sempre di più quelli precari e introducendo tutele sempre maggiori per chi ha un impiego.
Vedremo se il governo andrà in questa direzione. In parte ci ha provato con il Decreto dignità, ma la decisione di non toccare il nucleo fondamentale del Jobs Act (incluso il rifiuto di ripristinare l’articolo 18) sembra confermare l’idea che senza il giusto livello di flessibilità il sussidio “lavorista” del reddito di cittadinanza ha scarse probabilità di funzionare.
Alternative al reddito di cittadinanza M5s
L’alternativa sarebbe quella di introdurre un reddito minimo garantito e incondizionato la cui erogazione non è vincolata all’obbligo di accettare determinate offerte di lavoro.
Come abbiamo spiegato in questo articolo, la proposta originaria del Movimento Cinque Stelle andava in questa direzione. Si parlava infatti di sostegno alla persona senza alcun “obbligo di integrazione lavorativa”.
In Finlandia, come è stato analizzato qui, c’è stato un tentativo di questo genere. I 2mila beneficiari della misura hanno ricevuto per due anni 560 euro al mese. L’assegno veniva erogato in ogni caso, anche se il soggetto in questione trovava lavoro.
Non solo, ma le persone che ricevevano l’assegno non erano costrette ad accettare alcuna offerta di lavoro.
Questo sistema, come evidenziato da diversi studiosi, poneva però criticità simili a quelli del reddito di cittadinanza M5s: anche in quel caso, infatti, la copertura del reddito universale (erogato sempre e comunque) poteva spingere i beneficiari ad accettare lavori sottopagati (che a quel punto sarebbero diventate mere integrazioni al proprio reddito).
L’unico schema in grado di uscire da questo double bind potrebbe essere quello di un reddito minimo a cui si ha diritto solo fintanto che disoccupati, ma che preservi la libertà di accettare o rifiutare un lavoro.
In quel caso, forse, sarebbero le imprese a dover offrire un’occupazione per cui valga le pena perdere un sussidio comunque limitato nell’importo, sufficiente a garantire una condizione di vita dignitosa ma non così alto da scoraggiare la ricerca attiva di un impiego.
Leggi l'articolo originale su TPI.it