Il Sindacato autonomo di polizia (Sap), un’associazione che raggruppa circa 20mila iscritti tra i poliziotti italiani, si è schierato contro la legge che istituisce il reato di tortura approvata il 5 luglio alla Camera dei deputati.
Per farlo ha deciso di acquistare alcuni spazi pubblicitari su diversi quotidiani nazionali, dove compare un parallelo tra il buon vino – ovvero quella che secondo il sindacato poteva essere una buona legge – e il metanolo, ovvero il più semplice degli alcolici, per sottolineare la scarsa qualità del testo approvato.
Sul sito del Sap si legge che la legge approvata “delegittima l’operato delle forze dell’Ordine, disarmandole”.
“Questo disegno di legge che Gianni Tonelli (segretario generale del Sap, ndr) definisce ‘manifesto ideologico contro le Forze di Polizia’, non reprime il reato di tortura, ma ammanetta il poliziotto limitandolo nelle sue funzioni e lasciando campo libero alle azioni criminose”, recita l’annuncio sul sito. “Il Sap ha da sempre chiesto che i comportamenti di tortura siano severamente puniti, ma in questo modo a essere puniti, sono solo gli operatori di Polizia e la brava gente”.
Eppure, se da un lato il sindacato di polizia mostra il proprio scontento su una legge che definisce “un manifesto ideologico contro le Forze di Polizia”, anche gli stessi promotori del disegno di legge non sono rimasti soddisfatti dalla versione definitiva del testo approvato.
Lo scorso 17 maggio, il primo firmatario Luigi Manconi aveva deciso di non votare per il provvedimento da lui proposto in segno di polemica. Sotto accusa c’è la fattispecie del reato che, tra le varie cose, si configura solo per i comportamenti ripetuti nel tempo.
L’ordinamento italiano si è adeguato alla convenzione delle Nazioni Unite sulla tortura sottoscritta dal governo nel 1989, ma finora mai trasformata in legge. Il dibattito sulla mancanza di una norma sulla tortura si è inasprito quando l’Italia ha ammesso le sue responsabilità per le violenze contro i manifestanti del G8 del 2001 a Genova, all’interno della caserma di Bolzaneto.
Dopo un ricorso alla Corte europea dei diritti, sei delle vittime riceveranno dallo stato un risarcimento di 45mila euro ciascuna per i danni fisici e psicologici subiti.
La legge viene contestata dai promotori perché non punisce i singoli atti di tortura, ma solo quelli reiterati e perché non definisce la tortura come un reato compiuto da un pubblico ufficiale, ma come un reato comune o generico, con una pena prevista da 3 a 10 anni.
Il fatto che a commettere il reato sia un pubblico ufficiale, infatti, da elemento costitutivo del reato – come viene considerato nella convenzione Onu – diventa per la legge italiana solo un’aggravante.
La legge prevede la condanna alla reclusione in carcere da 4 a 10 anni per chiunque, che diventano fino a 12 se a compiere l’atto è un pubblico ufficiale.
Le pene, inoltre, vengono aumentate in caso di lesione personale. Se poi la tortura provoca la morte della vittima, sono previsti fino a 30 anni di carcere.
Un altro punto fortemente criticato è quello per cui la vittima deve dimostrare di aver subito un “verificabile trauma psichico”, la qual cosa allungherà in modo evidente la durata dei processi, rendendo di conseguenza più difficile punire l’autore della tortura.