Jacopo, Eddy, Davide, Jack e Pachino, i cinque ragazzi di Torino che hanno preso parte – con le armi e con le parole – alla lotta contro l’Isis in Siria e che rischiano la sorveglianza speciale sarebbero certamente soggetti pericolosi per la pm Pedrotta.
“Queste persone hanno manifestato una spiccata inclinazione alla violenza e all’uso delle armi: vi è la certezza che in futuro si rendano responsabili di condotte che mettano in pericolo la nostra sicurezza”: sono state queste le parole usate dalla giudice di Torino nel corso del dibattimento tenutosi il 25 marzo.
Per avere un commento sull’udienza TPI ha intervistato Jacopo, che ha fatto parte delle strutture civili della rivoluzione nella Siria del nord e che non ha mai ricevuto alcun addestramento militare.
Ieri in Aula si percepiva che l’attenzione positiva che abbiamo ricevuto dai media in questi giorni aveva avuto un effetto. La Procura era visibilmente imbarazzata e si è presa 90 giorni per prendere una decisione.
La pm Pedrotta ancora una volta ha voluto far passare l’idea che siamo socialmente pericolosi perché siamo andati in Siria, dove avremmo ricevuto un addestramento sull’uso delle armi che potremmo utilizzare anche in Italia.
Nel sostenere la sua tesi la pm ha anche cercato di togliere ogni valore etico a quello che abbiamo fatto in Siria, suggerendo che noi (e gli altri internazionalisti) non avessimo dato alcun contributo alla guerra contro l’Isis e che il nostro vero fine era imparare ad usare le armi.
Come se ci fosse bisogno di andare fino in Siria e mettersi in quelle situazioni farlo.
Esatto. Nel mio caso l’ipotesi di pericolosità sociale basata sulla conoscenza delle armi è ancora più assurdo, ma la pm non ha mai fatto menzione di ciò nonostante io lo abbia dichiarato più volte pubblicamente e anche in una dichiarazione spontanea resa in udienza il 23 gennaio.
In Siria non mi sono mai occupato degli aspetti militari, ma nell’arringa questo aspetto non è mai stato rilevato. Per la pm abbiamo tutti ricevuto un addestramento alle armi e questo ci fa capire che dietro l’iniziativa della Procura ci sono ragionamenti che si fatica a comprendere, intenti poco chiari.
Quello che viene considerato socialmente pericoloso sono i nostri valori e ideali.
In realtà la pm non ha la certezza della nostra pericolosità. Neanche leggendo gli atti riportati in aula si capisce da quale aspetto si evinca che siamo un pericolo per la società italiana.
In questi atti non c’è una singola prova, neanche annotazione della Digos che suggerisca che da quando siamo tornati in Italia ci siamo interessati o abbiamo fatto riferimento alle armi.
Avere delle opinioni in Italia non è un reato, senza contare che a tanti non piace il tema economico del capitalismo. Ma ciò non ci rende un pericolo per la società, né è una ragione valida per affermare che vogliamo prendere delle armi e usarle in Italia.
Non ci sono elementi indiziali che lo suggeriscano.
Quello della pm ci è sembrato un utilizzo strumentale di Lorenzo. Anche lui ha fatto le nostre stesse scelte per gli stessi motivi, ma la Pedrotta ha detto che non sarebbe
stato considerato socialmente pericoloso. Visto che Lorenzo condivideva le nostre idee, su quali basi lo afferma? Solo perché in questo momento c’è un cordoglio diffuso nella società per il suo martirio.
Per quanto riguarda i precedenti e le segnalazioni della polizia, i nostri avvocati hanno argomentato che non si tratta di segnalazioni o procedimenti sufficienti per richiedere la sorveglianza speciale perché derivano da un impegno politico che abbiamo avuto negli anni.
Si tratta di questioni lievi che non ci configurano come persone dedite a commettere reati, tantomeno classificabili tra quelli contro la sicurezza pubblica.
Uno dei dati riportati addirittura era che negli ultimi anni uno di noi ha partecipato a 21 manifestazioni: si faceva menzione della semplice partecipazione, non si trattava di episodi sfociati in violenza.
Probabilmente dà fastidio che siano proprio le persone che vengono dai centri sociali, dai movimenti anarchici e che fanno politica qua in Italia che poi si sentono in dovere di andare in Siria a combattere una minaccia globale come l’Isis.
>>La morte di Lorenzo in Siria ci insegna che dobbiamo schierarci