“È la persecuzione che contrassegna il lungo cammino dei rom e dei sinti, la continua discriminazione”.
C’è durezza, ma non c’è traccia di odio nelle parole di Giorgio Bezzecchi, figlio di Goffredo Bezzecchi, sopravvissuto al genocidio di rom e sinti in Europa durante la seconda guerra mondiale.
“Porrajmos” (“Devastazione”) è il nome con cui la comunità rom e sinti europea definisce lo sterminio per motivi razziali di circa mezzo milione di zingari finiti nei campi di concentramento nazisti o fascisti.
Il padre di Giorgio è sopravvissuto al campo, ma suo nonno è morto a Birkenau. Sua zia da Birkenau è tornata, dopo aver subito gli esperimenti del dottor Josef Mengele, conosciuto con il soprannome di “angelo della morte”.
Goffredo, detto Mirko, è stato arrestato quando era ancora un bambino perché figlio di una donna della comunità rom harvati.
È stato quindi condotto nella risiera di San Sabba, e poi vittima di internamento forzato nel campo di detenzione di Tossicia, in provincia di Teramo (uno delle decine di campi presenti in Italia durante il regime fascista).
“Ne è uscito solo nel 1943, con la liberazione”, racconta il figlio.
Del campo, Goffredo non ha parlato per molto tempo. “C’è stata una grossa rimozione da parte sua”, ha raccontato il figlio a TPI, “con fatica è riuscito a parlarne intorno agli anni Novanta del secolo scorso, con il sostegno dell’Opera Nomadi e degli psicologi”.
Ora Goffredo vive a Milano, precisamente nel campo comunale autorizzato di Rogoredo.
“Mio padre vive in un campo, ma per scelta. Io vivo in una casa, mio padre avrebbe la possibilità per farlo, ma per mia madre è assolutamente impensabile vivere all’interno di una casa”.
Il 6 aprile 2018, in vista della Giornata Internazionale dei Rom, Sinti e Caminanti, che ricorre l’8 aprile, Giorgio Bezzecchi ha ritirato il primo riconoscimento istituzionale conferito a suo padre in qualità di sopravvissuto al Porrajmos.
A consegnare la targa, Luigi Manconi, direttore dell’UNAR (Ufficio Nazionale Antidiscriminazioni Razziali) e già presidente della Commissione diritti umani del Senato, durante la presentazione del rapporto annuale dell’Associazione 21 luglio, che lotta per la tutela dei diritti dei rom.
“Ringrazio il senatore Manconi per questa opportunità, non solo in nome di mio padre, ma di tutti gli internati rom e sinti nei campi di internamento italiani e nei campi di concentramento nazisti”, ha detto Giorgio Bezzecchi, figlio di Goffredo, dopo aver ritirato il riconoscimento in nome del padre, che non ha potuto farlo personalmente per le sue condizioni di salute.
“Oggi è un giorno storico per noi rom e sinti”, ha aggiunto Bezzecchi, “perché si riconosce istituzionalmente il genocidio. Oggi in qualche modo abbiamo ricevuto la giustizia della storia. Come rom e sinti, finora ne siamo stati privati. Persino al processo di Norimberga non sono stati chiamati testimoni zingari, i pochi che hanno partecipato non sono neanche presi in considerazione. Oggi che abbiamo il riconoscimento di minoranza etnico-linguistica, questo premio è un inizio, ma abbiamo bisogno di un confronto con la società. Abbiamo bisogno di una rappresentanza”.
“Quello che è emerso oggi sono i grandi ritardi politici e istituzionali, dobbiamo tentare di dare una svolta significativa per migliorare le condizioni di vita della comunità rom e sinti in Italia, le cui condizioni continuano ad essere in Italia tra le più arretrate in Europa”, ha proseguito Giorgio Bezzecchi.
“Occorre costruire questa alternativa confrontandosi con le comunità rom e sinti. Oggi l’Australia chiede perdono alle minoranze di indigeni. Con questo riconoscimento noi oggi iniziamo un percorso”.
“La cerimonia di oggi ha una duplice valenza”, ha detto Luigi Manconi, direttore di UNAR. “In primo luogo è un atto di riconoscimento per la sofferenza di Mirko Bezzecchi e per la sua tenuta morale. Due elementi che raramente vengono accostati a vita di rom e sinti. La sofferenza viene ritenuta normalmente quasi un fatto genetico, e la loro forza morale viene negata, come se ci fosse una vera e propria riprovazione morale. Questo riconoscimento del Senato a Mirko invece è un atto significativo di cui bisogna andare fieri. Devono esserne fieri tutti i sinti e i rom, ma anche le persone non sinti e non rom ma legate alla causa”.
“In secondo luogo questo è anche un risarcimento. Ci sono due gruppi che non vengono quasi mai citati quando si parla delle vittime lager. Due gruppi taciuti e rimossi: le persone omosessuali e le persone rom e sinti. Secondo stime credibili solo ad Auschwitz sono stati uccisi 27mila rom e sinti, e la loro memoria è stata cancellata. Giorgio Bezzetti riceve questa targa per Mirko, che ha vissuto questa atroce esperienza”.
Ecco le motivazioni del riconoscimento per Goffredo Bezzecchi, scritte con il contributo di Gad Lerner e lette alla cerimonia del 6 aprile:
Fin dalla nascita, Goffredo Bezzecchi, detto Mirko, ha subito con la sua famiglia misure discriminatorie del regime fascista, nell’ambito di provvedimenti della razza. La sua colpa? Avere una mamma rom harvati, proveniente dall’Istria e già perseguitata dagli Ustascia croati. Nel 1940 la loro abitazione fu bruciata nei pressi di Udine, dove il piccolo Mirko viene catturato e trasferito alla risiera di San Sabba. Da qui l’internamento forzato in un campo di detenzione a Teramo, e il successivo trasferimento sull’isola di Lipari, dalla quale i Bezzecchi riuscirono a fuggire. Sua zia e i genitori di sua moglie furono deportati ad Auschwitz, vittime troppo a lungo dimenticate del Porrajmos, così le minoranze europee dei rom e dei sinti denominano lo sterminio di circa mezzo milione dei loro congiunti.
Fino ad oggi Goffredo Bezzecchi ha continuato a risiedere in quelli che noi definiamo campi rom. Attualmente risiede in un prefabbricato nel campo comunale autorizzato di Rogoredo, alla periferia di Milano. Le sue condizioni di salute non gli consentono di essere presente a questa cerimonia, ma lui e la sua famiglia chiedevano da tempo che lo stato italiano riconoscesse la condizione di perseguitato e di vittima del pregiudizio razziale che ha contrassegnato in modo indelebile la sua infanzia, affinché se ne conservi memoria.
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