Pare che siano solo termini medici o scientifici, per cui dovrei dire senza batter ciglio di avere un figlio mongoloide, deficiente e mezzo giudeo. Solo che, ammettiamolo: detta così, nel 2017 suona male, perché grazie a dio, la lingua italiana negli anni si è evoluta e siamo arrivati alla consapevolezza del fatto che alcune parole feriscono più di una pugnalata.
Il fatto è questo: dopo essere stati considerati cittadini di second’ordine, derisi, marginalizzati a volte addirittura eliminati, alcuni gruppi hanno detto basta. Hanno tirato su la testa. Qualcuno, di solito l’ideologia fascista, ha tentato disperatamente di frenare il progresso fatto dalla sensibilizzazione, ma è stata una battaglia persa in partenza.
Adesso i termini che prima venivano usati quotidianamente sono diventati offensivi, e chi li usa è considerato ignorante e poco sofisticato dalla gente comune: che vi piaccia o no, non si dice più negro, terrone, frocio, mongoloide, vecchio, semplicemente perché sono degli insulti. Sono soltanto usati come termini denigratori. Questo, lo voglio sottolineare, non è un mio punto di vista: è un dato di fatto. È un dato di fatto proprio come lo è il riscaldamento globale, non so come dire.
Poi è vero che quando sento la parola mongoloide, provo dentro l’aorta il dolore di una fitta profonda e nella vena cava una rabbia primordiale. Mi salta davanti agli occhi la faccia quasi morbida di mio figlio Luca, che vive la sua condizione di ‘diverso’ con una dignità invidiabile, con una leggerezza disarmante.
Se gli riuscissi a spiegare che il termine per descrivere quel suo cromosoma in più può essere usato come un insulto, non capirebbe, perché, a differenza di molti di noi, lui è perfettamente felice di essere così.Penserebbe, lui, che casomai l’insulto sarebbe chiamare qualcuno un ‘normale’, cioè uno come tutti gli altri, né più né meno, che, siccome è normale, dovrà sacrificare i suoi anni migliori a tentare di fare una carriera, di fare soldi, di scacciare la depressione che lo assale, di accettare compromessi difficili.
Ma dai, chi vorrebbe vivere così? direbbe Luca allibito. Non capirebbe proprio perché avere la sindrome di Down è considerato un insulto, e mi chiederebbe: “Ma mamma, pensaci: quante sono le persone in carcere con la sindrome di Down? Quanti quelli ricercati per omicidio, o incriminati per aver violentato delle ragazze fuori dalla discoteca, o per aver toccato il pisello ai chierichetti? Quanti sono quelli come me fanno i furbetti all’università e supportano una selezione baronale con una omertà vergognosa? Dimmi di un personaggio come me che in una qualsiasi società del mondo che abbia in qualche modo disturbato il quotidiano vivere?”.
Mio figlio non si rende conto della discriminazione che vive tutti i giorni, perché né lui né i suoi colleghi disabili hanno la capacità di far valere i propri diritti. Non sa neanche che dietro le quinte siamo noi genitori a combattere, ogni giorno, per ottenere diritti che a altri sono dati per scontato. Siamo noi, sì, a urlare a squarciagola che i nostri figli non sono mostri, ma il nostro fiore all’occhiello. Siamo noi, sì, a assicurarci che vengano trattati proprio come gli altri. Siamo noi, sì, che sentiamo la fitta nell’aorta quando una persona come Marco Travaglio usa la parola mongoloide per insultare. E, lo dico con una certa fierezza, siamo noi, sì, i responsabili di tanta indignazione da parte di molti.
Invito pubblicamente Marco Travaglio e tutti quelli che gli danno ragione di recarsi in un qualsiasi asilo italiano, sedersi per terra davanti a un bimbo con la sindrome Down e giocare con lui, leggergli un libro. Forse anche loro rimarranno affascinati dalla potenza di quel cromosoma in più. Di certo, invece di chiamare qualcuno mongoloide, gli diranno semplicemente che è uno stronzo.
Questo articolo è stato originariamente pubblicato su Per noi autistici con il titolo: Quando sento la parola mongoloide, provo dentro l’aorta il dolore di una fitta profonda e nella vena cava una rabbia primordiale
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