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    Le atrocità delle “marocchinate”, gli stupri e le violenze dell’esercito francese in Italia

    Il dramma di questi orrori è stato descritto da Alberto Moravia nel romanzo "La Ciociara", da cui Vittorio De Sica trasse il famoso film che valse l'oscar a Sophia Loren nel 1962

    Di Francesca Loffari
    Pubblicato il 13 Dic. 2017 alle 17:04 Aggiornato il 11 Set. 2019 alle 00:12

    “Marocchinate” è il termine che definisce gli episodi di stupri di gruppo, uccisioni e saccheggi perpetrati dai soldati dell’esercito francese, per lo più (ma non esclusivamente) marocchini, ai danni della popolazione italiana, dei prigionieri di guerra e di alcuni partigiani tra il 1943 e il 1944. Il dramma di questi orrori è stato descritto da Alberto Moravia nel romanzo “La Ciociara”, da cui Vittorio De Sica trasse il famoso film che valse l’oscar a Sophia Loren nel 1962.

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    Nonostante le marocchinate rappresentino uno dei momenti più bui del periodo bellico, la storiografia tradizionale ne ha spesso trascurato la gravità, circoscrivendo le violenze solo ad alcuni episodi che ebbero luogo nel frusinate nell’arco di poco più di cinquanta ore. Ebbene, non è così.

    Il Cef (Corp Expeditionnaire Français) era costituito per il 60 percento da marocchini, algerini e senegalesi e per il restante 40 da francesi europei, per un totale di 111.380 uomini ripartiti in quattro divisioni.

    Tuttavia, come riporta La Stampa “vi erano reparti esclusivamente marocchini di goumiers,  i cui soldati provenivano dalle montagne del Riff ed erano raggruppati in reparti detti ‘tabor’ in cui sussistevano vincoli tribali o di parentela diretta. Erano in tutto 7.833, indossavano il caratteristico burnus arabo, vestivano una tunica di lana verde a bande verticali multicolori e sandali di corda.

    Erano equipaggiati non solo con le armi alleate (mitra Thompson calibro 45 mm e mitragliatrice Browning 12.7 mm) ma anche con il tipico pugnale ricurvo (koumia) con il quale, secondo una loro antica usanza, tagliavano le orecchie ai nemici uccisi per farne collane e ornamenti.

    Il loro comandante era l’ambizioso generale Alphonse Juin, nato in Algeria che, da collaborazionista dei nazisti, era passato alle dipendenze di De Gaulle”.

    Le truppe sbarcarono in Sicilia nel 1943, risalirono la penisola, ma si arrestarono a Cassino, incapaci di infrangere la Linea Gustav, lungo la quale i tedeschi opponevano grande resistenza.

    Riuscirono a sfondarla con l’operazione Diadem, in cui attraversarono l’altipiano di Polleca, lanciandosi verso Pontecorvo. Per aver superato la linea nemica ebbero come premio cinquanta ore di libertà totale nei comuni di Esperia, Ausonia, San Giorgio a Liri, Coreno, Vallemaio, Castro dei Volsci, Pontecorvo sul versante frusinate; Campo di Mele, Lenola, Fondi, Formia, Terracina, Roccagorga, Maenza, Sezze e Sabaudia su quello pontino.

    Quando i nazifascisti si ritirarono, le truppe del Cef iniziarono a distruggere tutto ciò in cui si imbattevano. Violentarono chiunque: donne, bambini, uomini e anziani. Non risparmiarono nessuno.

    Chiunque tentava di fermarli veniva ucciso o sodomizzato, come accadde al parroco di Esperia, don Alberto Terrilli. Terrilli fu scoperto mentre tentava di nascondere due ragazze in sagrestia, venne legato ad un albero e stuprato per una notte intera. Morì a seguito delle lacerazioni interne riportate.

    Tra i comuni del Lazio coinvolti nei massacri, vi furono anche Grottaferrata, Giuliano di Roma e Sabaudia. Migliaia di donne subirono violenza carnale, contrassero malattie veneree come la sifilide e la blenorragia e rimasero incinte. Molte di loro non denunciarono mai per pudore o vergogna e tante altre furono emarginate dalla società perché considerate immorali.

    Oltre ai danni fisici, vi furono evidenti ferite psicologiche che probabilmente non si sono mai rimarginate.

    Le truppe del Cef perpetravano stupri e violenze in gruppi di due o tre membri, ma è certo che alcune donne siano state violentate anche da decine di soldati.

    Massimo Lucioli, co-autore del libro “La ciociara e le altre” (1998), spiega a La Stampa: “Dato il coinvolgimento dei bianchi, non presenti nei reparti goumier, si può affermare che i violentatori si annidavano in tutte e quattro le divisioni del Cef.

    Forse anche per questo, gli ufficiali francesi non risposero ad alcuna sollecitazione da parte delle vittime e assistettero impassibili all’operato dei loro uomini. Come riportano le testimonianze, quando i civili si presentavano a denunciare le violenze, gli ufficiali si stringevano nelle spalle e li liquidavano con un sorrisetto”.

    Emiliano Ciotti, presidente dell’Associazione Vittime delle Marocchinate, ha dichiarato che “sono oltre 180mila gli atti di violenza sessuale accertati su un totale di 60mila persone che li hanno subiti; significa tre di media per ogni persona, ma a qualche donna è capitato di dover subire violenza da interi plotoni.

    Oltre mille persone sono state uccise con palificazioni, eviscerazioni e addirittura crocifissioni ad opera delle truppe marocchine e nessuno ha mai pagato per questo”.

    E aggiunge: “Per loro non faceva distinzione se la vittima fosse uomo, donna o bambino. Tutto costituiva bottino di guerra e tutti, al loro passaggio, dovevano subire violenze indicibili. Ci sono stati casi di stupri nelle chiese dove le donne, giovani ed anziane, si rifugiavano sperando invano che i luoghi sacri non venissero profanati. Purtroppo così non è stato”.

     

     

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