A quattro anni dai fatti, è arrivata la prima vera svolta del complicato caso che vede coinvolti i due marò italiani. Il Tribunale dell’Aja ha stabilito che il fuciliere della marina Salvatore Girone – al momento in libertà vigilata a Nuova Delhi – potrà aspettare in Italia l’esito dell’arbitrato internazionale.
Il Tribunale dell’Aja ha così recepito le considerazioni legali e di ordine umanitario derivanti dalla permanenza di Girone in India, condizione che avrebbe potuto prolungarsi per altri due o tre anni tenuto conto della prevista durata del procedimento arbitrale.
Abbiamo rivolto alcune domande a Edoardo Greppi, docente di diritto internazionale all’Università di Torino, per comprendere meglio le implicazioni di questa notizia.
Come valuta la decisione del Tribunale dell’Aja? È una vittoria per l’Italia? Quali le implicazioni sui rapporti Italia-India?
La decisione rappresenta un gesto di disponibilità a venire incontro a un legittimo desiderio di chi da oltre quattro anni attende una soluzione a una vicenda che avrebbe da molto tempo dovuto essere chiusa. Non condivido, tuttavia, taluni toni trionfalistici.
Si tratta di misure provvisorie, che lasciano impregiudicato il merito della controversia. Se di vittoria si può parlare, è soltanto nel senso che hanno vinto la ragionevolezza e il buon senso, e una persona che da quattro anni è in attesa di un procedimento senza un capo d’imputazione può aspettare nel suo paese i prossimi sviluppi.
Circa le implicazioni sui rapporti tra i due Stati, dipenderà da come l’India darà attuazione alla decisione. Il Tribunale arbitrale chiede ai due governi di mettersi d’accordo circa le modalità di realizzazione pratica. L’India vuole che sia la sua Corte Suprema a stabilirle. Questa non è una lettura corretta, perché sembra nei fatti rilanciare la rivendicazione della competenza giurisdizionale indiana (che il Tribunale ha, invece, inteso “congelare”).
Come funziona l’arbitrato e perché siamo giunti a questa situazione?
L’Italia ha tentato per anni di raggiungere un accordo tra i due governi, scegliendo dunque la strada della soluzione diplomatica. Dinanzi alla impossibilità di trovare un accordo, nei mesi scorsi è stato costituito e si è insediato un Tribunale arbitrale, cui è stato chiesto di determinare a quale dei due stati debba essere riconosciuta la competenza a esercitare la giurisdizione. In tempi presumibilmente lunghi (si parla di almeno due anni) si arriverà a una decisione su questo punto essenziale.
A quattro anni dai fatti, i due marò attendono ancora un giudizio. Quali errori sono stati commessi dall’Italia nella gestione di questo caso?
Esprimere giudizi dal di fuori e con il “senno del poi” è sempre un esercizio facile (e forse ingiusto). Certo, la gestione della vicenda presenta innegabili profili di criticabilità. In una lunga fase, l’Italia ha scelto di difendere i due marò nel processo in India, e solo ora è approdata alla giusta decisione di difenderli dal processo.
In parallelo, ha continuato a perseguire tenacemente la ricerca di una soluzione diplomatica, cercando di non irritare il governo indiano. Per questo, ha rinunciato a reagire duramente alle violazioni subite, come quella di attirare e arrestare i due sottufficiali con un tranello, e quella di impedire la libertà di movimento all’ambasciatore (in violazione della Convenzione di Vienna sulle relazioni diplomatiche). La strada dell’arbitrato avrebbe forse potuto essere imboccata prima.
Una strada diversa sarebbe stata percorribile quando i due marò erano in Italia in permesso per le elezioni. La Procura della Repubblica di Roma avrebbe potuto convocarli e comunicare loro che era stato avviato un procedimento giudiziario in Italia e che, di conseguenza, veniva loro ritirato il passaporto.
Per un lungo tempo l’Italia ha (giustamente) rivendicato la sua competenza giurisdizionale, ma non ha mai intrapreso azioni coerenti in quella direzione.
— L’intervista è stata pubblicata da ISPI con il titolo “Marò in Italia durante l’arbitrato. Ha vinto il buon senso” e ripubblicata in accordo su TPI
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