Maria Rita Logiudice aveva 25 anni. Il suo cognome fuori dalla provincia di Reggio Calabria non dirà niente a nessuno. Ma nel capoluogo calabrese è un cognome pesante da portarsi dietro. Il suo è un cognome mafioso.
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Maria Rita era la figlia del boss di ‘ndrangheta Giovanni Logiudice e il 3 aprile 2017 si è lanciata dal secondo piano della sua abitazione, uccidendosi.
I figli della ‘ndrangheta, in un modo o nell’altro, il destino ce lo hanno già scritto. Non sono uomini e donne liberi. Se condividono la strada della criminalità dei loro genitori, vanno incontro a una morte certa, coinvolti in faide tra cosche rivali, in regolamenti di conti, in agguati.
Se non la condividono, come Maria Rita, muoiono schiacciati in un modo o nell’altro dal peso della ‘ndrangheta. Se non muoiono, vivono in un inferno.
Respirare ‘ndrangheta dalla nascita è qualcosa che, nel bene o nel male ti segna. Essere intrisi di cultura mafiosa da sempre, diventa inevitabilmente parte della tua storia. C’è chi si adagia, chi si ribella, chi fugge, chi cavalca l’onda, chi non si fa domande, chi si sente orgoglioso, chi combatte, chi parla, chi collabora. Chi non vede l’alternativa, chi non vuole l’alternativa. E poi c’è chi decide che un peso così grande non lo vuole portare sulle sue piccole spalle.
Le forze dell’ordine non hanno dubbi, si è trattato di un suicidio e secondo chi la conosceva bene, la ragazza “covava un malessere per la sua situazione familiare”. Nessuna lettera, nessuna motivazione.
Secondo gli investigatori è proprio l’appartenenza a una famiglia di ‘ndrangheta ad aver avuto un peso nella decisione di suicidarsi. Nelle scorse ore si sono recati presso l’Università Mediterranea di Reggio Calabria per incontrare docenti e colleghi della giovane.
Giovanni Logiudice è un boss della ‘ndrangheta che adesso si trova in carcere. Mafiosi e appartenenti alla stessa cosca anche gli zii di Maria Rita, Luciano e Nino, che è collaboratore di giustizia.
Maria Rita non è la prima donna Logiudice a fare una fine tragica a causa della famiglia. Una zia nel 1994 venne uccisa perché aveva tradito il marito che si trovava in carcere. Un’altra zia è scomparsa nel 2009 e di lei non si hanno più notizie.
Nel 2016 Maria Rita si era laureata alla triennale in Economia, iscrivendosi poi alla magistrale, sempre all’Università di Reggio Calabria. Secondo alcuni amici, “anche all’università, la ragazza si sentiva emarginata per l’ingombranza del cognome”, racconta Il Fatto Quotidiano.
“Maria Rita è morta di isolamento. Se non siamo capaci di integrare chi cerca un futuro alternativo alla ‘ndrangheta abbiamo perso tutti quanti”, ha dichiarato il procuratore di Reggio Calabria Federico Cafiero de Raho. “Ho sentito don Ciotti che mi ha chiamato con le lacrime agli occhi. Ho parlato con il prefetto, con il presidente della Corte d’appello Luciano Gerardis, con padre Ladiana, con tutti quelli che credo possano fare qualcosa. Se noi diciamo ai ragazzi cambiate vita e poi non siamo in grado di integrarli, di sostenerli, il cambiamento che tutti auspichiamo non arriverà mai”.
Reggio Calabria, la città in cui Maria Rita, dopo aver intrapreso la strada dello studio cercando di tenersi fuori da certe dinamiche, ha deciso di farla finita è la stessa città dove c’è un tribunale dei minori che per primo ha capito che qualcosa nei meccanismi familiari mafiosi andava scardinato.
È lì che il presidente Roberto di Bella ha avviato una serie di procedimenti di allontanamento dei minori dalle proprie famiglie, se queste rappresentano un pericolo, per dare loro la possibilità di scegliere un’alternativa.
“Abbiamo saputo che ci sono minori che hanno tatuati le immagini dei carabinieri sulla pianta del piede in modo tale che possano calpestarli costantemente”, racconta a TPI Di Bella, accennando a quella cultura mafiosa e al disprezzo dell’autorità che i figli di ‘ndrangheta respirano fin dalla nascita.
I provvedimenti giuridici usati sono quelli di decadenza o limitazione della responsabilità genitoriale, quindi con affido del minore ai servizi sociali e con collocamento in comunità o in famiglie fuori dalla Calabria. In pratica si tratta dello stesso strumento giuridico usato nei casi di abusi sessuali e dei maltrattamenti. A oggi sono stati emessi circa 40 provvedimenti del genere. Qui la storia integrale.
La storia di Maria Rita per certi versi ricorda quella di Rita Atria, una ragazza giovanissima, figlia di una famiglia mafiosa, che a 17 anni iniziò a collaborare con la giustizia, legandosi in particolare al giudice Paolo Borsellino. Una settimana dopo la strage di via d’Amelio, in cui Borsellino perse la vita, Rita Atria si uccise a Roma, dove viveva in segreto, lanciandosi dal settimo piano di un palazzo di viale Amelia 23.
Entrambe figlie di mafiosi, entrambe scelgono di togliersi la vita. Storie e motivazioni diverse, uno stesso destino: un cognome troppo ingombrante da sopportare, una libertà inaccessibile, una vita normale negata, in nome di quella montagna di merda che chiamiamo mafia.
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