Lo scorso 4 febbraio 2017, seicento docenti universitari, storici, sociologi, filosofi, economisti firmavano una lettera indirizzata al ministro dell’istruzione e al parlamento italiano per chiedere interventi urgenti volti a rimediare alle carenze dei loro studenti.
“È chiaro ormai da molti anni — si legge nella lettera — che alla fine del percorso scolastico troppi ragazzi scrivono male in italiano, leggono poco e faticano a esprimersi oralmente”.
Una presa di posizione dura contro il sistema formativo italiano, colpevole di aver a lungo “svalutato il tema della correttezza ortografica e grammaticale”, che ha aperto il dibattito sulle sorti della lingua italiana e sulle capacità espressive, orali e scritte, delle nuove generazioni.
TPI si è rivolto ad uno dei punti di riferimento più importanti nel nostro paese per quanto riguarda la linguistica, l’Accademia della Crusca, per fare il punto sulla situazione.
Claudio Marazzini dal 2014 è il presidente della principale istituzione dedicata allo studio e alla conservazione della lingua italiana, e lui stesso ha dedicato saggi e articoli su riviste specializzate sullo studio della storia della nostra lingua.
Alcuni membri dell’Accademia della Crusca hanno firmato l’appello dei docenti, cosa ne pensa della lettera?
Provo grande soddisfazione e riconoscenza nei confronti di questi seicento docenti che hanno fatto emergere nel modo giusto un problema reale che probabilmente, sollevato diversamente, non avrebbe avuto la stessa risonanza. Fino al giorno precedente all’uscita della lettera, sui quotidiani nazionali c’erano pagine di grande elogio su un liceo di Milano che ha deciso di insegnare tutto in inglese: non entro nel merito della scelta, però mi sembra abbastanza logico che se si decide di utilizzare questo metodo è molto difficile che i risultati in italiano siano brillanti. Non soltanto perché si sposta l’attenzione verso una lingua diversa, ma anche perché l’insegnante si troverà un po’ demotivato.
Qual è il problema reale? I nuovi studenti non sanno parlare e scrivere per loro mancanze o per una formazione scolastica non corretta?
Probabilmente è più un problema di scrittura che di parlato, non bisogna esagerare, non abbiamo un popolo di muti. Semmai, quando si dice parlare, si può intendere riuscire ad argomentare in maniera complessa. Capisco la protesta di questi docenti che insegnano delle discipline anche lontane dalla linguistica, la loro è una reazione di fastidio che qualche volta provo anch’io perché anche io insegno, ma non è un problema che riguarda solo i giovani. Diverse ricerche e inchieste lo testimoniano, non ultima quella dell’Ocse, condotta su un campione compreso tra i 16 e i 65 anni, che individua l’Italia al penultimo posto per competenza matematica e all’ultimo posto per comprensione del testo.
Quando parla di fastidio a cosa si riferisce nello specifico?
Spesso ci si trova a correggere le tesi di laurea e ad esercitare una professione diversa: per un periodo relativamente breve si è costretti ad indossare i panni dei maestri elementari o dei professori di scuola media, di liceo, e solo dopo questo lavoro è possibile entrare nel merito del contenuto della tesi. Si perde molto tempo.
Condivide il documento in toto?
Sono contento che ci sia, ma non lo condivido tutto. Nell’Accademia della Crusca ci sono posizioni diverse. È opportuno che il presidente non si schieri, per evitare che si trasformi in una polemica. La parte propositiva del documento è quella più fragile perché c’è un atto di accusa nei confronti della scuola primaria. Ma se gli studenti universitari scrivono male, non è solo responsabilità della scuola primaria: gli studenti non passano dalla scuola primaria all’università, il meccanismo è un tantino più complesso. In secondo luogo, la scuola primaria italiana nelle valutazioni internazionali esce sempre con giudizi molto buoni.
La lettera ha acceso un dibattito su quella che è la situazione dell’italiano, sulla capacità di argomentare, di scrivere bene, non solo a livello scolastico, ma anche nei diversi campi in cui si esercita la lingua: quale destino stiamo riservando all’italiano?
La lingua italiana sta benissimo, son gli italiani che stanno male. Abbiamo una lingua di grande tradizione culturale, bellissima, se uno non la sa usare peggio per lui. La questione riguarda il sistema di valori, non la lingua. Nel funzionamento della società della comunicazione si sono innestati meccanismi aziendalistici: nell’industria editoriale, ad esempio, c’è continuamente bisogno di nuovi contenuti, per questo motivo si crea un’editoria effimera, ma naturalmente i valori della cultura non si misurano sull’editoria effimera, ma sulle produzioni di buon livello. È importante che nel sistema educativo gli interessi di politica generale e di bene collettivo siano distinti dall’aziendalismo.
Quali fattori possono determinare un decadimento della scrittura?
La fretta, la velocità, vanno sempre a discapito della qualità. C’era Manzoni che diceva che il segreto dello scrivere bene è quello di pensarci su. Oggi il pensarci su è un lusso straordinario, che pochissimi si possono permettere.
Concludendo, è vero che questa generazione parla e scrive peggio di quella precedente?
Il problema non credo riguardi il parlato. Nell’uso formale e scritto dell’italiano sorgono le difficoltà. Altrimenti si potrebbe pensare che gli italiani non riescono a conversare, gli italiani sanno conversare, il problema è quando si passa a dire cose importanti, quando si deve argomentare con una struttura logica complessa. Il documento dei seicento se la prende con la scuola elementare, ma il problema è anche nella coesione testuale, nella strutturazione logica. Difetti molto difficili da sradicare sui quali ci si esercita al liceo. Un altro problema riguarda il lessico, esiste un repertorio di vocaboli che gli alunni non capiscono o che conoscono pensando significhino altro. Lì è ancora più dannoso il passaggio perché viene falsato il messaggio di un testo o di un discorso.
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