Allan Moises e sua sorella Joy sono due ragazzi di 19 e 23 anni. Hanno un sorriso contagioso e spiccati tratti asiatici. A guardarli, nessuno scommetterebbe sulle loro origini italiane: eppure è proprio così.
Nati e cresciuti a Roma da genitori filippini, sono l’esempio della nuova generazione di italiani e di un Paese che sta cambiando.
La comunità filippina è stata una delle prime a insediarsi nella nostra penisola. Se il flusso migratorio più consistente si concentra negli anni Novanta, sono stati gli anni Settanta il punto di partenza per le migrazioni verso l’Italia, fino a stabilizzarsi nel Duemila con la nascita della seconda e terza generazione.
Oggi, si contano 136 mila soggiornanti, che fanno dei filippini la settima in graduatoria tra le comunità più numerose in Italia, secondo il “Rapporto sulla Comunità filippina 2012” stilato dal Ministero degli Esteri. Su un totale di 40.223 concessioni della cittadinanza, solo l’1,2 per cento è stato a favore di filippini.
Allan e Joy sono italiani e si sentono italiani, ma il cammino per il riconoscimento della cittadinanza è stato lungo e non privo di ostacoli. Tempi scanditi dalla burocrazia, tra certificati scolastici per dimostrare la presenza continuativa sul territorio, e di permessi di soggiorno rinnovati anno dopo anno, tutto per ottenere al compimento della maggiore età quel passaporto rilasciato dalla Questura.
Ma la verità è che il sentimento di appartenenza alla cultura italiana va oltre lo svolgimento delle pratiche amministrative: è questo ciò che emerge dalla testimonianza di Joy, quando racconta di come per lei l’ottenimento del passaporto italiano sia stata “una pura formalità. Nonostante i miei genitori siano filippini, mi sono sempre sentita italiana al cento per cento, non ho mai ritenuto il riconoscimento della cittadinanza necessario per offrire una conferma sul mio status”.
Tuttavia, nel momento in cui confrontano la loro vita con quella dei propri genitori e degli altri cittadini filippini migrati in Italia, è soprattutto l’amarezza a dominare.
Ciò che colpisce di più Allan è che sebbene gli italiani abbiano un’ opinione positiva della comunità filippina, specie in campo lavorativo, quello che vedono è “una colf o un cameriere efficiente, che mantiene un atteggiamento di rispetto e di educazione nei confronti del datore di lavoro, inconsapevoli del fatto che quella colf ha conseguito un diploma di infermiera o di insegnante in patria, che quel cameriere è in realtà un ingegnere meccanico, titoli di studio che qui in Italia sono carta straccia”.
Le cifre non si discostano dalle sue osservazioni: più dell’80 per cento della popolazione filippina risulta occupata in forme di lavoro dipendente. Tante ambizioni che vengono messe da parte pur di garantire ai propri figli un futuro migliore, anche svolgendo un mestiere più umile, lontani dal Paese di origine.
La storia di Joy e Allan è parte di una generazione di giovani che non vuole rendere vani i sacrifici dei genitori e avverte una forte esigenza di riscatto: Joy studia Lingue per diventare hostess e Allan inizierà a ottobre a frequentare la Facoltà di Chimica. La speranza è quella di poter soddisfare i loro sogni e le aspettative della famiglia.
L’altra faccia della medaglia è la testimonianza di Susan e Melandro Peralta, entrambi cinquantenni, in Italia rispettivamente da 18 e 21 anni. Lavorano come dipendenti in un laboratorio di carni per la vendita al dettaglio nei supermercati romani. Hanno tre figli che vivono e studiano nelle Filippine.
Nessuno di loro è mai stato in Italia. È soprattutto Susan a prendere parola per raccontare la loro vita in Italia negli ultimi anni: “la mia vita e quella di mio marito è interamente dedicata a mantenere i nostri figli. Lo stipendio permette di pagare la retta delle loro università e le spese necessarie per vivere qui in Italia.
È stata una sofferenza vederli crescere con i nonni, lontano da noi, ma sapere che il loro futuro sarà più semplice e migliore del nostro ci consente di non pentirci della difficile scelta che abbiamo fatto di vivere separati da loro”.
Hanno un buon rapporto con i colleghi italiani e con la cultura italiana, e l’accento romano che accompagna le loro risposte ne è la conferma. A differenza di Allan e Joy, la loro storia però continua a essere legata alla terra di origine, e il primo desiderio sarebbe quello di tornarvi, un giorno, anche se non escludono nulla per il futuro.
“Non importa dove ci troviamo – sostengono entrambi – chiameremo casa quel luogo dove la nostra famiglia sarà nuovamente riunita”.
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