L’orribile strage di Nizza ci conferma ancora una volta che la guerra contro il Daesh non si può vincere sul terreno convenzionale.
Non sono i droni, i bombardamenti, le incursioni aeree a cancellare la minaccia di un califfato che si pretende universale e che agisce in modo asimmetrico con una pericolosa tendenza al franchising del terrore, come dimostra la biografia di Mohamed Lahouaiej Bouhlel, il franco-tunisino responsabile della morte di almeno 84 persone e di un centinaio di feriti.
Neanche l’opzione boots on the ground in Libia, in Siria e in Iraq garantirebbe la certezza che i devastanti attentati che si susseguono con sempre maggiore frequenza ad opera di freelance del terrore cesserebbero del tutto. E neppure l’opera di intelligence, che pure ha consentito molte volte di sventare per tempo certe missioni suicide, può bastare.
Nei giorni scorsi i servizi francesi avevano lanciato l’allarme. Temevano un attentato con un’autobomba, invece è stato un camion guidato da un cane sciolto, replica su più vasta scala di una tecnica già sperimentata in Israele.
Una guerra, come si vede, che apparentemente non si può vincere. Perché la battaglia non è su quel terreno che va combattuta ma su un altro: quello della sponsorizzazione wahhabita ad opera della Arabia Saudita, del Qatar e degli emirati del Golfo che si riconoscono nell’ortodossia sunnita di Riad.
Un impetuoso fiume di denaro sgorga ogni anno dai ricchi forzieri delle monarchie del Golfo. Denaro che finanzia moschee, madrasse, centri culturali islamici, ma che serve anche ad acquistare armi (la sola Arabia Saudita fa uno shopping annuale di armamenti attorno ai 100 miliardi di dollari), ad addestrare uomini, a sostenere con una capillare propaganda a malapena mascherata dal proselitismo religioso quell’esercito invisibile di jihadisti sparsi dovunque, dal Bangladesh alla Tunisia, dall’Egitto alla Turchia, dal Belgio alla Francia, che rapidamente si radicalizzano e diventano gli araldi di un nichilismo, di un culto della morte al quale possiamo dare molti nomi, ma a cui l’appellativo di fascismo islamico è forse quello che maggiormente si attaglia.
Il problema è quello di non riconoscere – o peggio, di non voler riconoscere – l’origine del male. Troppi buoni affari si fanno con le monarchie del Golfo, troppe ghiotte partite finanziarie legano le democrazie occidentali ai ricchi signori sauditi, qatariani, kuwaitiani, le cui rendite petrolifere (ancorché in drastico calo rispetto a due anni fa) consentono loro di espandersi sui mercati internazionali.
Con la sinistra contropartita, tuttavia, che insieme ai ben remunerati acquisti di società, alberghi, squadre di calcio, cresce e si amplifica (anche grazie al web) l’influenza religiosa e ideologica del credo wahhabita. Nessuno o quasi si oppone. Nessuno o quasi osa tagliare l’erba sotto i piedi a questa offensiva.
La sola Norvegia, una mosca bianca nel silenzio imbarazzato dell’Europa, ha sospeso il permesso di una nuova grande moschea finanziata da Riad se non si otterrà un gesto di reciprocità: quando si potrà edificare un chiesa cristiana nella penisola arabica, rilasceremo quel permesso.
Ma in un paese dove tagliano la testa agli apostati e dove manifestare il proprio credo è un delitto capitale è molto difficile che ciò possa accadere. L’Europa, inerme e intimidita dal terrorismo islamico, non ha nemmeno il coraggio di chiamarlo così: ad ogni strage, ad ogni eccidio compiuto nel nome del califfo gli assegna una generica etichetta di “terrorismo”, quando invece si tratta di stragi di marca islamica, compiute leggendo il Corano.
Ed è solo nel momento in cui si taglieranno quei flussi finanziari, si troncheranno quelle vergognose ambiguità, si costringeranno cioè i grandi elemosinieri del terrore a chiudere i cordoni della borsa che potremo sperare di veder affievolire l’onda di sangue che sta sommergendo le nostre fragili e confuse democrazie.
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