“La leadership egiziana era pienamente consapevole delle circostanze intorno alla morte di Regeni”, lo scrive in una lunga e approfondita inchiesta del New York Times il giornalista Declan Walsh che cita come fonti tre ex funzionari dell’amministrazione Obama.
Il quotidiano statunitense ha infatti dedicato un lungo articolo dal titolo “Perché un dottorando italiano è stato torturato e ucciso in Egitto?” nel quale ha esaminato i rapporti tra Italia ed Egitto e ha rivelato alcune importanti informazioni sulla morte del ricercatore italiano il cui cadavere martoriato fu ritrovato il 3 febbraio 2016 in un fosso alla periferia del Cairo.
L’articolo è stato pubblicato il 15 agosto, stesso giorno in cui la Farnesina ha annunciato che l’ambasciatore italiano Giampaolo Cantini tornerà al Cairo, in Egitto, dopo un anno e quattro mesi di assenza.
Ma cosa dice esattamente l’articolo del Nyt?
L’inchiesta ripercorre diverse fasi della morte di Regeni e si sofferma sulle informazioni in possesso dell’amministrazione statunitense, di quelle trasferite al governo italiano e dei complessi equilibri di potere tra Italia ed Egitto.
“Nelle settimane successive alla morte di Regeni gli Stati Uniti vennero in possesso dall’Egitto di prove di intelligence esplosive: elementi che dimostravano come Regeni fosse stato rapito, torturato e ucciso da elementi della sicurezza egiziana”, scrive il giornalista. ” ‘Avevamo prove incontrovertibili di responsabilità ufficiali egiziane’, spiega un membro dell’amministrazione Obama, uno dei tre ex esponenti governativi che hanno confermato l’esistenza di quelle prove. Su raccomandazione del Dipartimento di Stato e della Casa Bianca, gli Stati Uniti consegnarono questa conclusione al governo Renzi. Ma per evitare di bruciare la propria fonte, gli statunitensi non condivisero i materiali di intelligence”, prosegue l’articolo.
Dunque gli americani sapevano e dissero agli italiani che la leadership egiziana era pienamente a conoscenza delle circostanze relative alla morte di Regeni. “Non avevamo dubbi sul fatto che questa era una cosa nota fino ai livelli più alti”, spiega al giornalista Declan Walsh un altro ex rappresentante del governo. “Non so se ne fossero responsabili. Ma sapevano. Sapevano”.
Ma se l’Italia era a conoscenza delle responsabilità del governo egiziano perché non intervenne in modo più deciso nei confronti dell’Egitto?
Probabilmente perché, secondo le ricostruzioni del Nyt, il governo italiano non poteva in alcun modo recidere i rapporti con l’Egitto: le agenzie di intelligence italiane avevano bisogno dell’aiuto dei colleghi egiziani per affrontare la “minaccia dell’Isis, gestire il conflitto in Libia e monitorare l’ondata di migranti nel Mediterraneo”.
Ma la condizione di subordinazione al volere del governo egiziano non sembra essere stato l’unico problema dell’intelligence italiana nel corso delle indagini sulla morte di Regeni.
Secondo quanto rivelato dal Nyt, sembrerebbe che “l’avvertita collaborazione fra Eni e servizi di intelligence italiani diventò fonte di tensione all’interno del governo”.
“Secondo un funzionario del ministero degli Esteri italiano, i diplomatici erano giunti alla conclusione che l’Eni si era unita alle forze del servizio di intelligence dell’Italia nel tentativo di trovare una rapida risoluzione del caso”, si legge nell’articolo. “Ministero degli Esteri e funzionari dell’intelligence cominciarono a essere prudenti gli uni con gli altri, talvolta trattenendo informazioni”.
Un’altra possibile risposta alla domanda titolo dell’articolo del Nyt fa riferimento alla precisa volontà del governo egiziano di mandare “un messaggio ad altri stranieri e governi stranieri per smettere di giocare con la sicurezza dell’Egitto”, scrive Walsh. “Sotto al Sisi, anche un occidentale poteva essere sottoposto a torture brutali”. Tale tesi sarebbe in parte confermata anche da un altro particolare: il ritrovamento del cadavere di Giulio puntellato a un muro. “Volevano che venisse ritrovato?” si domanda il giornalista.
Scoprire la verità sulle atrocità commesse sul corpo del giovane ricercatore italiano sarebbe stato reso ancora più complesso per i continui “depistaggi compiuti dalle forze di intelligence egiziane”.
L’allora ambasciatore italiano Massari avrebbe dovuto ricorrere a soluzioni vecchio stile per comunicare con Roma per il timore che i suoi messaggi venissero decriptati dagli egiziani impiegati presso la sede diplomatica italiana e poi inviati alle agenzie di sicurezza egiziane.
“Presto smise di usare le email e il telefono per le comunicazioni delicate,ricorrendo ad una soluzione vecchio stile, per comunicare con Roma: una macchina che scriveva messaggi criptati su carta. Si temeva che in un appartamento posto accanto all’ambasciata, le cui luci erano costantemente spente, fosse stato piazzato quanto necessario per spiare le mosse dei rappresentanti italiani”, si legge nell’articolo.
Una terza possibile spiegazione alla morte di Giulio Regeni viene identificata nel coinvolgimento del giovane ricercatore in una guerra incrociata tra le diverse agenzie di sicurezza e intelligence egiziane: la Sicurezza Nazionale, l’Intelligence militare, e la General Intelligence Service,— l’equivalente egiziano della Cia — se pur tutte fedeli al presidente Al Sisi, vengono descritte come “in competizione tra loro”.
L’ipotesi del coinvolgimento di qualche apparato di sicurezza egiziano nell’uccisione di Regeni non era una cosa nuova. Mesi dopo, nel settembre 2016, gli stessi investigatori egiziani ammisero per la prima volta che Regeni era stato indagato dalla polizia egiziana, un’informazione fino a quel momento sempre smentita dall’Egitto.
Sulle rivelazione fornite dall’inchiesta del Nyt restano aperte alcune domande: quando esattamente queste prove furono passate dall’intelligence statunitense al governo italiano? Di quali prove si parla? Fino a che punto il governo egiziano è responsabile della morte di Regeni? Quanto al Sisi è coinvolto in questo caso?
Leggi l'articolo originale su TPI.it