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Il business dell’olio di palma

È il grasso principale di molti biscotti e merendine, ma i suoi effetti sulle economie dei Paesi emergenti fanno discutere

Di Caterina Michelotti
Pubblicato il 2 Mar. 2015 alle 14:00

Si chiama olio di palma, ma nelle etichette dei prodotti alimentari spesso si nasconde dietro la dicitura generica di “oli e grassi vegetali”.

È una materia prima poco costosa con caratteristiche simili a quelle del burro. Utile per la preparazione di dolci e snack industriali, viene anche impiegata nel mercato della cosmetica per saponi e detergenti.

Il prodotto si ottiene dai frutti della pianta originaria dell’Africa Occidentale e poi esportata in tutta l’Africa, Asia, Nord America e Sud America.

Quando fu introdotta nelle regioni del sudest asiatico, venivano esportate 250mila tonnellate di olio di palma. Oggi, la richiesta è salita a 60 milioni

La domanda globale di olio di palma raddoppierà entro il 2020, e secondo alcune stime triplicherà entro il 2050. 

I due più grandi produttori di questa sostanza sono l’Indonesia e le Malesia, che dalla produzione e l’esportazione ricavano oltre 35 miliardi di euro a testa ogni anno.

L’uso massiccio delle piante comporta grandi costi ambientali ed etici. La richiesta di olio di palma è talmente alta che, per stare al passo con gli ordini dell’industria alimentare, centinaia di ettari di foreste vengono abbattute e convertite in monoculture.

In questo modo non solo si mettono a rischio gli habitat naturali, ma si compromette la biodiversità. Nelle foreste pluviali del mondo vivono circa la metà degli animali, piante e insetti del nostro pianeta. 

La ricerca continua di aree per allargare la coltura ha portato allo sfratto di indigeni in Indonesia e Malesia, ma anche in Uganda.

— L’olio di palma delle Nazioni Unite: i contadini in Uganda contro una piantagione finanziata dal World Food Programme

A questo si aggiunge il rischio per la salute: l’olio di palma, infatti, assunto quotidianamente è dannoso per l’organismo per via dell’alta presenza di grassi saturi. Essendo utilizzato per merendine, biscotti e snack, la quantità pro capite consumata da ogni individuo è considerevole – in particolar modo tra i bambini.

L’impatto sull’ambiente

L’industria dell’olio di palma è una tra le maggiori responsabili della deforestazione nel Sud Est Asiatico.

In Indonesia, tra il 1967 e il 2000, l’area dei territori destinati alla coltivazione di palme è cresciuta da poco meno di 2mila chilometri quadrati a oltre 30mila. Negli ultimi 15 anni in Indonesia sono stati abbattuti sei milioni di ettari di foresta.

Il Wwf ha calcolato che ogni ora nel mondo vengono abbattute porzioni di foreste tropicali della grandezza di 300 campi da calcio. Secondo Forest Trends, tra il 2000 e il 2010 l’80% del taglio è avvenuto illegalmente. 

Anche a causa della forte domanda per la produzione di olio di palma, negli ultimi vent’anni oltre il 90% dell’habitat degli orangotango, specie di primati caratteristica del sudest asiatico, è stato distrutto. Questo ha compromesso la crescita di semi della foresta pluviale indonesiana, che possono crescere soltanto attraverso l’intestino dell’animale.

L’abbattimento delle foreste pluviali ha anche comportato il cambiamento del clima e l’inquinamento dell’aria: gli alberi abbattuti vengono bruciati e sprigionano quantità di fumo tali da rendere l’Indonesia il terzo paese per emissione di gas serra al mondo.

Il costo umano

L’insediamento di grandi produttori e la costruzione di piantagioni di olio di palma vengono spesso promossi come nuove opportunità di lavoro per i poveri nelle regioni rurali come quelle di Borneo e Sumatra. In realtà l’industria spesso contribuisce ad aumentare i problemi delle popolazioni.

L’industria dell’olio di palma si associa infatti a violazioni dei diritti umani come lo sfruttamento dei minori. Nelle zone più remote di Indonesia e Malesia, sono i bambini a raccogliere i frutti dagli alberi in cambio di pochi spiccioli o niente.

Le piantagioni sono presto diventate l’unico mercato per la popolazione locale, che non ha altra scelta se non quella di accettare le condizioni di lavoro offerte dall’industria, che approfitta del suo monopolio per sottopagare i raccoglitori.

La petizione italiana

In Italia è partita il 20 novembre una campagna contro il prodotto.

La petizione è stata promossa dalla rivista indipendente Il Fatto Alimentare e intende chiedere al ministero della Salute di ostacolare l’utilizzo del prodotto e la vendita di alimenti che lo contengano.

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