“Sai una cosa? Noi afgani abbiamo sempre il mal di testa. Anche quando in realtà non è vero, ma ci portiamo dentro quella sensazione di una bomba che scoppia di lì a poco e i rumori della guerra che ogni giorno dilaniano il paese”. Esordisce con queste parole Hilal Hamid mentre mi preparo a intervistarlo.
Hilal, che in arabo significa “mezza luna”, ha un sorriso contagioso e quando lo incontro davanti a un caffè e a un cappuccino fumanti ho la sensazione di conoscerlo da più tempo. Oggi ha 20 anni, vive in Italia da cinque e di mestiere fa il pasticcere. Mi racconta che qui a Roma si sente come a casa e quando gli domando se gli manca l’Afghanistan risponde con estrema franchezza: “No, non mi manca un paese dove ho conosciuto solo guerra, sofferenza e violenza”.
Hilal di vite sembra averne vissuto almeno tre. La prima è stata quando è venuto al mondo nella provincia di Nangarhar, al confine con il Pakistan. “Sono nato in casa come mia sorella, ma purtroppo mia madre è morta dopo avermi partorito”.
Nella maggior parte dei casi le donne afgane preferiscono partorire fra le mura domestiche anziché recarsi in ospedale. Questo, per diversi motivi: a volte per la mancanza di collegamenti con le strutture ospedaliere più vicine, altre ancora per la mancanza di denaro, ma soprattutto perché alle donne non è consentito recarsi in cliniche ospedaliere senza una figura maschile al loro fianco, come un padre o un marito.
“Mio padre decise così di risposarsi perché non voleva che mia sorella e io crescessimo orfani di madre. La mia mamma adottiva mi allattò e si prese cura di me. I miei genitori decisero poi di mandarmi a studiare in Pakistan, per far sì che io crescessi lontano dalla guerra. Facevo rientro a casa ogni tre mesi per le vacanze estive. Fino a quando, a undici anni, la mia vita cambiò radicalmente”.
È così che inizia la seconda vita di Hilal, segnata dalla scomparsa del padre, per lungo tempo in prigionia nelle mani dei taliban. “L’ultima volta che rientrai a casa trovai mia madre e mia sorella in lacrime. Mi dissero che papà era stato rapito dai taliban e di lui si erano perse le tracce. Non l’ho mai più rivisto e non so che fine abbia fatto”.
Al dolore per la scomparsa del padre, che all’epoca lavorava come sminatore per il contingente statunitense dislocato nell’area, Hilal fu costretto a farsi carico di un’altra sofferenza, ossia la scoperta di non essere figlio naturale e legittimo della donna che fino ad allora lo aveva cresciuto e accudito.
“Avevo dodici anni, ero piccolo e non avevo più nemmeno un padre. Quando mia madre mi disse che non ero suo figlio, provai un dolore profondo e una rabbia travolgente. Ci sono rimasto molto male e sono scappato di casa. Per giorni ho vagato per strada e la notte mi fermavo nella moschea, dove l’Imam del luogo mi offriva spesso del cibo o un luogo dove riposare”.
Hilal sospira cercando di riordinare le idee per raccontare la terza parte della sua vita, quella più dolorosa, quando anche lui finì nelle mani dei taliban.
“Sono stato sei mesi loro prigioniero. Una notte vennero in moschea, picchiarono l’imam lasciandolo sanguinante sul pavimento mentre lui implorava quegli uomini con il volto di coperto di lasciarmi stare perché ero solo un bambino”, racconta.
“Ma loro non vollero ascoltarlo, mi afferrarono, mi bendarono gli occhi e mi legarono le mani. Mi trascinarono via, dentro un furgone. Parlavano il pashtun e io cercavo di capire cosa dicessero”.
La macchina con a bordo Hilal viaggiò per quasi quattro ore per le strade polverose e le montagne. “Ma la benda sugli occhi mi impediva di vedere dove mi stavano portando. Ricordo che non ero solo, insieme a me c’erano anche altri ragazzi”.
Una volta giunti a destinazione – racconta ancora Hilal come un fiume in piena – “ci dissero che non eravamo buoni per combattere, ma solo per farci esplodere. Ci fecero il lavaggio del cervello, facendoci credere che le nostre famiglie ci avevano abbandonato o non ci avrebbero più voluti indietro. E se ci fossimo rifiutati di eseguire gli ordini, non saremmo usciti comunque vivi da quel posto”.
IL BAMBINO KAMIKAZE
Tutti i bambini arruolati nelle fila dei taliban devono imparare a usare un’arma. “Anche io ho accettato”, confessa Hilal. “Ricordo solo che in quell’istante tremavo come una foglia. Mi dissero di indossare un giubbotto con dell’esplosivo, mi fecero passare un filo lungo il braccio che terminava con un piccolo detonatore, che dovevo tenere ben nascosto sul palmo della mano”.
Secondo l’ultimo rapporto diffuso da Human Rights Watch e pubblicato il 17 febbraio 2016, sono decine i bambini reclutati nelle fila dei combattenti talebani in Afghanistan, a partire dalla metà del 2015, violando apertamente il divieto internazionale sull’uso dei bambini soldato. Il rapporto ha inoltre mostrato che gli ambienti più prolifici per rapire i bambini e destinarli a varie operazioni militari sono le scuole religiose islamiche (le madrase) e le moschee.
I bambini reclutati e addestrati nelle fila dei taliban nella maggior parte dei casi hanno meno di 18 anni. Il loro indottrinamento inizia all’età di sei o sette anni. Una volta che imparano a usare le armi possono essere impiegati nelle missioni suicida o nella produzione di ordigni esplosivi improvvisati.
“La prima volta che capii di dovermi farmi esplodere ho iniziato a piangere, a urlare, dicendo che non volevo morire. Loro all’inizio mi persuasero, sostenendo che non avrei sentito assolutamente nulla. Ma non volevo uccidermi e uccidere altre persone. Mi riportarono indietro. Lo stesso accadde la seconda volta. Dovevo mettere a segno un attacco suicida su una strada dove notoriamente transitavano mezzi militari afgani e statunitensi”.
Anche la seconda volta Hilal con indosso dell’esplosivo decise che non si sarebbe fatto esplodere. “Ma in quel frangente non furono clementi con me. Mi torturarono per giorni, mi rovesciarono dell’olio bollente addosso, bruciandomi il braccio, la schiena e una parte del cranio. Mi dissero che la prossima volta avrei dovuto eseguire il loro ordini non sarei sopravvissuto”.
Oltre alle torture fisiche, Hilal e un altro ragazzo reclutato per un attacco suicida e sottoposto alle medesime vessazioni, subirono anche violenze psicologiche, come la mancanza di cibo e acqua. “Avevamo fame e sete. Loro ci dissero che eravamo destinati a morire di lì a breve. Allora chiedemmo di poter mangiare e poter bere un bicchiere d’acqua”.
Quella richiesta fu anche la sua salvezza. “Ci lasciarono soli per un bel po’ di tempo. Erano convinti che così feriti non saremmo di certo scappati”. Ma l’istinto di sopravvivenza a volte è più forte di qualsiasi paura o minaccia. “Scappammo via da un buco. Ricordo solo che io correvo a perdifiato cercando di aiutare il mio compagno a cui avevano bruciato una gamba. L’ultima immagine che ho di quell’istante è di me che mi butto in un lago. Poi, più nulla”.
LA LUNGA MARCIA VERSO L’EUROPA
Le bruciature sul braccio e sulla schiena gli ricordano ogni giorno quanta sofferenza ha dovuto patire, prima di riuscire a imboccare la strada della salvezza. Hilal ha dovuto attraversare l’Iran, la Turchia e la Grecia, prima di arrivare in Italia, dove è giunto senza documenti e senza un’identità nel marzo del 2011.
Per sei mesi ha vissuto in Iran, ospite di una famiglia iraniana a Teheran. Ma Hilal sapeva che il suo futuro non sarebbe stato lì, così decise di raggiungere Istanbul. “Mi misi in cammino per raggiungere il confine turco. Camminavo di notte, da mezzanotte alle cinque, attraversando i sentieri di montagna, per evitare di essere preso dalle guardie che controllavano i confini”.
Altri otto mesi li trascorse nella città turca. Qui Hilal trovò vitto e alloggio in una fabbrica di abbigliamento grazie all’aiuto di un amico afgano. “Dormivo in una piccola stanza dentro la fabbrica, ma il mio datore di lavoro non mi pagava. Non potevo vivere così, e allora decisi di intraprendere di nuovo la lunga marcia verso l’ignoto”.
Arrivò così in Grecia, dopo giorni di cammino. “Sono arrivato alla stazione e mentre stavo scendendo dal treno la polizia mi fermò. Mi portarono in commissariato, non avevo documenti, e mi intimarono di lasciare il paese entro cinque giorni”.
Hilal lasciò la Grecia dopo due mesi. In quel periodo, il giovane afgano aveva trovato lavoro in una fabbrica d’acqua nell’isola di Arta. Poi decise di trasferirsi ad Atene, dove trovò un’occupazione presso un centro scommesse. “Qui lavoravo dalle 10 di mattina fino alle tre di notte, tutti i giorni. Ma non era il posto giusto in cui rimanere”.
“Un giorno arrivai al porto di Patrasso. Qui c’erano delle navi cargo che imbarcavano dei camion. La mia idea era quella di fuggire lontano e allora mi infilai sotto un autoarticolato. Il portellone della nave si chiuse e partii. L’indomani mattina sbarcai al porto di Bari, dove ad attendermi c’era la polizia, che mi portò in commissariato, fecero i controlli e mi lasciarono andare”.
Dopo tre anni trascorsi a vagare senza una meta definita, ma solo con il desiderio di scappare il più lontano possibile lasciandosi alle spalle un paese martoriato da una guerra senza tregua, Hilal è arrivato in Italia.
LA TERZA VITA DI HILAL, IL PASTICCERE
“A Bari salii su un treno, uno qualsiasi. Non sapevo dove andare, non conoscevo la lingua e non avevo nessun contatto. Sbagliai e finii in Francia. Le autorità francesi mi presero, mi portarono in caserma per le impronte digitali e poi mi rispedirono in Italia”.
Hilal necessitava di cure mediche per le ferite sul braccio e sulla schiena. Una volta giunto in Italia, il giovane è stato accolto in diversi centri di accoglienza di Roma e in una casa-famiglia, L’Approdo.
“Grazie all’impegno del personale della casa famiglia e di altre associazioni sono stato curato. Per due mesi e mezzo, da luglio a settembre 2011, sono stato ricoverato all’ospedale San Camillo. Ancora oggi devo assumere dei farmaci per placare il dolore delle cicatrici e sottopormi a controlli medici frequenti. Ma sono vivo”.
Ed è proprio a Roma che comincia la terza vita di Hilal.
Il giovane afgano seguito dai volontari delle associazioni si iscrive a scuola e prende la licenza media. Il suo sogno è quello di diventare un pizzaiolo, un panettiere o un cuoco. “Volevo fare il pizzaiolo, ma quando mi dissero che i corsi erano tutti al completo ci rimasi male. Mi dissero che l’unico corso ancora disponibile era quello per pasticcere. Non avevo mai fatto un dolce in vita mia, ma decisi di iscrivermi lo stesso”.
È stata la sua fortuna. “Ero il più piccolo del mio corso. Le lezioni teoriche erano durate due mesi e nell’aprile del 2012 presi l’attestato di frequenza. Ma ora veniva la parte più dura del percorso, ossia quella di trovare un impiego in una pasticceria”.
Terminato il corso, Hilal si è messo immediatamente alla ricerca di un’occupazione.“Girai diverse pasticcerie della città. Ne ricordo una in particolare. Quando mi presentai al titolare per un lavoro, lui mi rispose non prendiamo la gente strana in questo posto. Queste parole mi ferirono. Ero arrabbiato, volevo scappare via, anche dall’Italia”.
“L’autobus che percorreva viale Libia ad un certo punto oltrepassò le vetrine di una pasticceria. La ragazza dell’associazione che mi aveva accompagnato nella ricerca di un lavoro mi disse, Hilal scendiamo e chiediamo se cercano un aiuto pasticcere”.
Una volta oltrepassata la soglia di quella pasticceria, Hilal non è più uscito. Dopo uno stage di un anno come apprendista, oggi il giovane afgano che si era rifiutato di premere il detonatore e farsi esplodere è uno stimato pasticcere. Quando gli domando quale sia la sua specialità mi risponde: “Lavorare il cioccolato e fare le decorazioni sulle torte. Non a caso mi chiamano scherzosamente cioccolato al latte, sia per la mia passione sia per il colore della mia pelle”. E ride.
(Qui sotto Hilal Hamidi sorride con in mano una delle sue torte: Credit: Hilal Hamidi)