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    La guerra in Libia e gli interessi dell’Italia

    Credit: Mahmud TURKIA / AFP
    Di Stefano Silvestri
    Pubblicato il 15 Apr. 2019 alle 12:39 Aggiornato il 10 Set. 2019 alle 08:54

    Il generale Khalifa Belqasim Haftar non ama le conferenze internazionali sulla Libia, in cui è costretto ad accettare il ruolo di primo ministro ricoperto, per volere delle Nazioni Unite, da Fayez al Sarraj, per cui fa tutto il possibile per scompigliare i giochi e dimostrare che, se c’è qualcuno che può governare il Paese, quello è lui.

    Guerra in Libia: perché si combatte, chi sta con chi e come siamo arrivati fin qui

    Se fosse vero potrebbe anche essere una soluzione, ma il problema è che nessuno ci crede veramente.

    La forza e le debolezze di Haftar

    Haftar ha dalla sua molti soldi che gli arrivano dai Paesi arabi che temono il contagio dei Fratelli Musulmani, forti in Tripolitania, ma presenti un po’ ovunque nel mondo arabo, a cominciare dall’Egitto, che è il paese in cui sono nati e dove sono la maggiore opposizione al regime del generale Abd al-Fattah al-Sisi.

    Non a caso quest’ultimo appoggia a spada tratta Haftar. E poi Haftar ha anche un embrione di Esercito. Nulla di che in termini assoluti: con circa 10- 15.000 uomini non si conquista né tanto meno si tiene un paese vasto e complesso come la Libia.

    Ma forte in termini relativi, rispetto alle singole e frammentate milizie che controllano ciascuna un pezzetto di quell’immenso territorio. Per cui può facilmente comprare o sconfiggere i suoi nemici, finché questi rimangono divisi tra loro.

    È più difficile invece che riesca a sconfiggerli quando si coalizzano. E comunque non è abbastanza forte per mantenere il controllo di territori ostili. Ma può cercare di umiliare Sarraj, mandando a vuoto i piani delle Nazioni Unite. Il che significa continuare la guerra civile.

    L’impatto della campagna di Haftar sulla sicurezza

    C’è un’altra ragione per cui tanti esitano a dare la loro fiducia ad Haftar. La sua campagna militare è politicamente ed ideologicamente diretta contro i Fratelli Musulmani e coloro che, in un modo o nell’altro, ad essi sono riconducibili.

    L’eventuale (e per ora ancora tutt’altro che certa) sconfitta di queste forze in Libia alimenterebbe potentemente le forze più estremiste e terroristiche, da al-Qaida all’Isis, già attive nel Paese. La guerra civile assumerebbe un altro aspetto, molto più pericoloso, e potrebbe rendere inevitabile la prospettiva di un intervento militare dei nostri Paesi, per difendere la nostra stessa sicurezza.

    L’opzione migliore è dunque quella, avversata da Haftar, di un accordo negoziale tra tutte le maggiori parti in causa. Ma per arrivarci è necessario imbrigliare il generale. La cosa è difficile, soprattutto perché non c’è accordo tra gli attori internazionali che oggi, pur appoggiando tutti nominalmente le Nazioni Unite, spesso e volentieri, con la mano sinistra, fanno il contrario.

    L’interesse dell’Italia è una Libia pacificata

    L’interesse dell’Italia è evidentemente che si arrivi ad un accordo che ci permetta una buona cooperazione economica e di sicurezza con una Libia pacificata, guidata da un governo credibile. Ma l’Italia da sola non può assicurare questo risultato.

    Ha bisogno di alleati. Il problema è che è difficile trovarli. Anche perché la nostra politica estera, in questo periodo, è quanto mai incerta e ballerina, alla mercé di dichiarazioni o iniziative improvvisate, e spesso improvvide, dei maggiori leader della maggioranza e del governo.

    Abbiamo bisogno dell’appoggio della Turchia, che non ama Haftar, ma contemporaneamente affermiamo di non volerla in Europa: affermazione tanto offensiva quanto inutile, visto che non c’è per ora alcuna possibilità di un suo ingresso nell’Unione europea. Dovremmo approfittare del fatto che il presidente francese Emmanuel Macron sembri ora prendere le distanze da Haftar (che nel recente passato era stato invece favorito da Parigi), ma i nostri rapporti con la Francia sono appena passabili, e solo grazie agli sforzi diplomatici del nostro presidente della Repubblica: chi può parlare a cuore aperto con il leader francese?

    Ci resterebbe il nostro decantato legame con gli Stati Uniti e il loro presidente. Peccato però che gli americani si siano già precipitosamente ritirati dalla Libia. E poi, come gestire una grande alleanza transatlantica nel Mediterraneo proprio quando Donald Trump prepara forti sanzioni economiche contro l’Europa, Italia inclusa? Haftar ha chiesto l’intervento diplomatico della Russia, forse ispirato dal relativo successo di Bashar al-Assad in Siria.

    Molti nell’attuale governo italiano guardano con simpatia questa potenza, ma rimane il fatto che abbiamo contribuito ad abbattere il precedente regime con un intervento guidato dalla Nato e che un asse Roma-Mosca sarebbe incompatibile con i buoni rapporti con Washington.

    Priorità internazionali e priorità elettorali

    Insomma una situazione intricata che non sarà facile sbrogliare. Non impossibile però. Tutto dipende da quale reale priorità diamo alla crisi libica. Siamo disposti a sacrificare ad essa le diverse priorità elettoralistiche e di politica interna?

    Se realmente riteniamo che la soluzione della crisi libica sia un interesse vitale dell’Italia dobbiamo comportarci di conseguenza e puntare con coerenza e continuità alla ricucitura di tutti quei rapporti internazionali che ci sono necessari, sgombrando il campo da quella moltitudine di problemi e posizioni settoriali che oggi li rendono così precari, dalla Tav ai gilets jaunes, passando per molte polemiche sulla politica europea.

    Non è detto che un maggiore consenso internazionale sarà sufficiente ad assicurare il risultato sperato, ma è comunque un passo necessario, senza il quale niente sarà possibile.

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