Quando Giulio Regeni è scomparso, il 25 gennaio 2016, viveva in Egitto da 5 mesi, stava svolgendo un dottorato di ricerca sui sindacati indipendenti egiziani per l’università di Cambridge.
Giulio Regeni è scomparso in un giorno particolare, un giorno che da diversi anni rappresenta una data importante per l’intero Egitto. Cade infatti in quella data l’anniversario della rivoluzione egiziana (25 gennaio 2011) conosciuta come rivoluzione del Nilo.
Un movimento di protesta popolare, imperniato sul desiderio di rinnovamento politico e sociale, aveva manifestato al Cairo contro il trentennale regime del presidente Hosni Mubarak.
La rivoluzione, partita inizialmente come movimento pacifico, ispirato alle proteste organizzate in Tunisia e in altri paesi arabi, è sfociata, nel corso degli anni, in scontri che hanno provocato vittime tra manifestanti, poliziotti e militari.
Ibrahim Heggi è portavoce del Movimento 6 aprile, un gruppo giovanile, laico e democratico, che da anni si batte per la difesa dei diritti umani e per l’abbattimento del regime in Egitto.
Ciao Ibrahim, tu hai seguito molto il caso di Giulio Regeni, scomparso il 25 gennaio del 2016: una morte sulla quale pesano ancora molte ombre…
Il caso Regeni è particolare, in Egitto ce ne sono tanti di Giulio Regeni ma il suo caso è diverso. Prima di tutto perché riguarda uno straniero, un occidentale, e se è vero che siamo tutti umani e uguali, lui in Egitto era visto in modo diverso: lì la realtà cambia se non sei un nigeriano o un somalo.
Qual è l’altra particolarità?
Giulio era vicino ai ragazzi che rappresentavano la vera rivoluzione egiziana, un folto gruppo di persone che aveva un potenziale e che dava visibilità a ogni causa. Quella generazione che non ha vinto la rivoluzione, ma che è comunque riuscita a far cadere il regime. Giulio conosceva tanti ragazzi, studiava con loro ed era in gamba. Appena si è saputo della sua morte c’è stata una mobilitazione generale per dare visibilità al suo caso, ancor più che in Italia.
Cosa hanno fatto?
Il caso è divenuto famoso anche grazie ai social media dell’Egitto che ne hanno parlato tantissimo, attraverso tutte le lingue possibili, facendo viaggiare l’informazione tra i vari paesi del mondo, raggiungendo anche gli egiziani stanziati fuori dal paese. Il caso di Regeni era ed è talmente grave perché rappresenta ciò che sta accadendo in Egitto in termini di diritti umani.
Cosa ha rappresentato la sua morte?
Ha dato visibilità al cambiamento che i ragazzi stanno cercando di portare avanti. Quando lessi il post su Facebook di un mio amico avvocato che annunciava il decesso di un italiano e della presenza di un ambasciatore italiano in Egitto, mi resi subito conto che qualcosa non andava. Cercai di mettermi in contatto con i miei amici italiani al Cairo e di reperire informazioni. Non ci volle molto per capire che Giulio era stato ucciso dalla polizia o dalle autorità egiziane. È vero che non abbiamo ancora prove ufficiali e che necessariamente bisogna fare affidamento al corso della giustizia per ottenere la verità – rispettando la legge ovviamente – ma lasciami dire che è facile intuire come sono andate le cose: sono stati loro.
Perché dici questo?
Perché non è certo il primo caso: chiunque in Egitto si avvicini al movimento operaio o al sindacato, se non viene ucciso, viene mandato via. Molti egiziani finiscono in carcere. Questo ci restituisce la misura di come agisca la dittatura: gli interessi sono enormi e riguardano sopratutto l’economia che gira intorno agli operai e agli ambulanti.
Giulio a chi poteva dare fastidio?
Gli studi di Giulio si concentravano molto sul movimento operaio, sui cinque milioni di venditori ambulanti per i quali la situazione era particolarmente critica. Questo può aver destato sospetti sulla sua persona e può non essere piaciuto al governo egiziano. Secondo alcune fonti americane al Cairo, Giulio non era l’unico a essersi interessato a questi movimenti. Un francese è stato estradato, un altro egiziano è stato imprigionato per un periodo.
Fino a quando sei stato in Egitto?
Il 13 maggio 2008 sono arrivato in Italia, avevo partecipato alla manifestazione di protesta del 6 aprile 2008. Dopo quella data ho avuto problemi con la polizia. Ho raggiunto mia sorella in Italia, che vive qui da 33 anni. Da bambino venivo spesso in questo paese e il mio sogno era sempre quello di trasferirmi qui. Sono stato fortunato perché mia sorella è riuscita a trovarmi una possibilità lavorativa.
Nel frattempo hai continuato a seguire quello che accadeva in Egitto?
L’Egitto è il mio paese, non avrei potuto fare altrimenti. Sono diventato il portavoce del Movimento 6 aprile in Italia e in Europa, e ho iniziato a combattere per i diritti umani. Pur avendo una laurea in ingegneria meccanica, ho capito ben presto che in Egitto non avrei trovato lavoro, per questo sono andato via. Ma il movimento continuo a seguirlo a distanza, attraverso i social network e con i mezzi disponibili.
Com’è il movimento oggi?
Oggi il movimento non ha forza, non c’è più, o c’è ma è fermo. Si è affievolito da quando, nel 2015, una sentenza del tribunale del Cairo ha dichiarato che il movimento è pericoloso e minaccia la sicurezza del paese. Dopo questa sentenza tanti giovani sono stati arrestati, tra cui il fondatore stesso, per motivi amministrativi. Tanti giornalisti sono andati via dall’Egitto. Il movimento non è forte, stiamo cercando di combattere ancora, ma ognuno a modo suo. Siamo tutti controllati.
E come lo sai?
Lo so, ho le mie fonti. Non ho bisogno che me lo dicano, capisco la mentalità di queste persone.
Secondo te la verità uscirà mai fuori?
È impossibile capire cosa succederà nel futuro. Secondo me la verità non uscirà mai fuori, stiamo giocando fino all’ultimo minuto di questa partita, stiamo facendo il possibile, e credo che l’opinione pubblica italiana e quella egiziana siano sensibili al tema. Abbiamo lavorato sin dal primo giorno per questo caso, abbiamo tradotto tutto, anche quello che sta succedendo in Italia per gli egiziani e viceversa.
Immagino tu sia a conoscenza del forte legame di collaborazione internazionale che unisce Italia ed Egitto…
Certo, questo è uno dei motivi per cui forse la verità non uscirà. Ma prima di tutto c’è la questione della lingua, della traduzione. Abbiamo cercato di attirare l’attenzione anche sul linguaggio usato dai media egiziani di regime. Attualmente in Egitto i media sono manipolati: ho un amico che lavora per una tv locale e mi ha raccontato di essere stato avvisato di non parlare più del caso Regeni. Da mesi non circolano notizie su questo caso.
Secondo te chi ha ucciso Giulio?
Giulio non era una spia: se lo fosse stato, non sarebbe andato in giro a chiedere informazioni in modo così tranquillo. Non era pericoloso, non aveva trovato informazioni importanti, non c’era niente per cui valesse la pena trattarlo così. È un problema di livello internazionale, chiunque potrebbe fare la fine di Giulio. Vogliono farlo passare come una spia a tutti i costi.
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