Il 25 gennaio 1939 nasceva a Milano Giorgio Gaber, cantautore, autore di spettacoli teatrali, attore, showman televisivo e soprattutto maestro di pensiero per molti, ancora oggi presentissimo sulla scena culturale italiana con recital, concerti e festival a lui dedicati a distanza di quindici anni dalla sua morte, il 1 gennaio 2003.
L’eredità che Gaber ha lasciato non riguarda infatti solo la scena musicale, ma campi diversi quanto il teatro e la politica, e le sue parole continuano a essere attualissime per chi non smette di inseguire la propria libertà e autonomia di pensiero.
Nonostante il repertorio di Gaber sia sterminato, e con i suoi dischi e spettacoli sia possibile tracciare una storia d’Italia dagli anni Sessanta al Duemila, abbiamo cercato di scegliere otto canzoni che possano rappresentare la sua multiforme carriera e invitare a scoprirne il resto della produzione.
GOGANGA (1968)
Non bisogna dimenticare che prima di diventare un eroe dell’impegno civile e del cantautorato più rispettato, Giorgio Gaber è stato per circa dieci anni un grandissimo intrattenitore leggero, tanto da diventare uno dei volti più noti al grande pubblico televisivo degli anni Sessanta, quando si produceva anche come presentatore.
In questo caso è facile notare il talento di Gaber nel coinvolgere gli spettatori con la sua inimitabile mimica facciale e il suo istinto comico, un lato che non abbandonerà mai, nemmeno durante i suoi successivi spettacoli più impegnati.
LA LIBERTÀ (1972)
Nel 1970 Gaber, con un gesto estremamente coraggioso, considerando la sua reputazione di star della musica leggera, decide di dare una svolta alla sua carriera inaugurando l’era del cosiddetto teatro canzone, un genere nuovo di spettacolo a metà tra concerto e monologo che resterà la sua cifra stilistica per tutta la vita e segnerà l’inizio della collaborazione con Sandro Luporini ai testi.
Uno dei brani più noti di questa poi inscindibile coppia e di tutta la carriera di Gaber è sicuramente La libertà, ripresa in seguito in moltissime occasioni soprattutto politiche, spesso travisandone l’ispirazione originaria.
Gaber dichiarò infatti: “Smisi di votare dopo il referendum sul divorzio del ’75. […] Il mio è un non voto polemico nei confronti di un meccanismo che comunque perpetua l’esistenza di partiti che hanno perso senso e che proprio su questa perdita di senso hanno allargato il loro potere, diventando delle specie di logge, di cricche politiche che si sono spartite i soldi dei contribuenti. […]
In quella canzone già si metteva in discussione l’ipotesi di una delega totale, in quanto la parola ‘partecipazione’ era del tutto inadeguata dal mio punto di vista, perché si voleva dire in realtà ‘libertà è spazio di incidenza’, cioè la capacità di incidere davvero nel proprio sociale”.
FAR FINTA DI ESSERE SANI (1973)
Ormai deciso a intraprendere un percorso unico nel panorama della musica italiana e non solo, Gaber colora i suoi testi di riferimenti all’attualità sociale e politica, lanciando uno sguardo che attraverso la satira o la riflessione intima e personale spinge molti ad approfondire alcune tematiche.
Il suo modo di affrontare l’impegno e il cambiamento dei costumi ha però toni molto meno esaltati di altri, inserendo spesso tra le pieghe dei suoi dischi dubbi e ammissioni di fallimenti privati.
In questo pezzo, per esempio, dichiara: “Per ora rimando il suicidio e faccio un gruppo di studio/le masse, la lotta di classe, i testi gramsciani:/far finta di essere sani”.
C’È SOLO LA STRADA (1974)
Nel 1974 Gaber pubblica Anche per oggi non si vola, che si chiude con questo lungo pezzo dai toni autobiografici (come d’altronde in moltissima parte della sua produzione) a metà tra recitato e cantato.
Il protagonista racconta in prima persona dei suoi amori, constatando con amarezza che il suo desiderio di partecipazione attiva alla vita sociale e all’impegno collettivo si frantuma ogni volta nello scontro con la sicurezza borghese e narcotizzante di una casa e di una famiglia.
Come sempre in Gaber, c’è tutta l’onestà di chi, uomo imperfetto, ammette che “la famiglia è più economica e protegge di più”, ma non per questo rinuncia ad ammonire a se stesso che “C’è solo la strada su cui puoi contare/la strada è l’unica salvezza/c’è solo la voglia e il bisogno di uscire,/di esporsi nella strada e nella piazza”.
QUANDO È MODA È MODA (1978)
È il 1978 e Gaber, dopo essere stato per anni una voce sempre autonoma ma comunque schierata con i movimenti di protesta che da dieci anni cercavano di rivoluzionare il paese, manifesta tutta la sua disillusione e la sua distanza con l’album Polli di allevamento.
La canzone che conclude il disco è una durissima accusa alla generazione del Settantasette, già accomunata agli animali del titolo, “che odiano ormai per frustrazione e non per scelta”, e qui l’autore rincara la dose: “Mi fanno schifo le vostre animazioni, le ricerche popolari e le altre cazzate/e finalmente non sopporto le vostre donne liberate con cui voi discutete democraticamente”.
Lo spettacolo verrà accolto per la prima volta da fischi e monetine da parte di un pubblico tradito, e la svolta nostalgica di Gaber verrà accusata di qualunquismo, ma era stato lui stesso a dire nello stesso pezzo: “Di quelli che diranno che sono qualunquista non me ne frega niente/non sono più compagno né femministaiolo militante”.
IO SE FOSSI DIO (1980)
L’Italia del 1980 è nel pieno degli anni di piombo, già segnata dall’uccisione di Aldo Moro, da rapimenti, attentati e non da ultimo le stragi di matrice politica come quella alla stazione di Bologna.
Gaber è ormai sempre più distante da qualsiasi forma di rispecchiamento in una fazione politica, e sembra aver perso ogni illusione per un cambiamento che dieci anni prima sembrava imminente.
È quindi questo il momento in cui lascia sfogare tutto il suo veleno attraverso un pezzo di ben quattordici minuti in cui immagina di mettersi nei panni di Dio e lancia il suo giudizio spietato giudizio universale contro qualsiasi categoria ritenga responsabile di “trent’anni di cancrena italiana”.
La canzone, che sembra riduttivo chiamare tale, è un’invettiva senza pari nella musica italiana, e dimostra tutta l’inflessibilità di Gaber nell’andare anche contro figure e categorie che nessun altro si permetterebbe di attaccare.
QUALCUNO ERA COMUNISTA (1991)
Cambiano i tempi, cambiano i partiti e le ideologie e si avvicina l’era della seconda repubblica, che vedrà Gaber ancora più sconfortato rispetto agli esiti delle rivoluzioni immaginate da lui e dai suoi coetanei, tanto da scrivere poi “la mia generazione ha perso”.
È forse per il nuovo clima politico di inizio anni Novanta che Gaber, da sempre militante critico, si concede un’elegia commossa per il Pci e per le idee da esso rappresentate.
La canzone, o meglio il pezzo recitato, è un lunghissimo elenco, a metà tra il lirico, l’umoristico e l’indignato, di ragioni per cui si poteva essere comunisti in Italia dal dopoguerra in poi, terminando con un rassegnato e malinconico sguardo alle macerie presenti di quelle idee.
LA RAZZA IN ESTINZIONE (2001)
È l’ultimo Gaber prima della morte, ed è anche il più amaro, con un aggiornamento senza censure delle sue invettive passate contro l’establishment, questa volta ancora più disilluse dopo anni dalla fine dei partiti storici e l’avvento del berlusconismo.
Anche le nuove generazioni, che potevano dare nuova speranza dopo il fallimento dei propri padri, non vengono risparmiate: “Coi giovani sono intransigente/Di certe mode, canzoni e trasgressioni non me ne frega niente”.
Per Gaber c’è ormai solo il rimpianto per un tempo diverso e lontano, in cui anche lui poteva cantare e credere in un’illusione poi mai realizzata: “La mia generazione ha visto le strade, le piazze gremite/Di gente appassionata, sicura di ridare un senso alla propria vita/Ma ormai son tutte cose del secolo scorso: la mia generazione ha perso”.
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