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Come si diventa inventori di giochi?

Intervista al Senior Game Designer Andrea Chiarvesio

Di Lucandrea Massaro
Pubblicato il 5 Apr. 2019 alle 15:04 Aggiornato il 5 Apr. 2019 alle 15:34

L’industria del gioco in Italia, come altrove, sta vivendo un vero boom, ma è ancora piccola rispetto a paesi come Francia e Germania, tuttavia l’interesse cresce e lo fa in maniera a volte inaspettata e trasversale, come ad esempio quando la Scuola Holden di Alessandro Baricco a Torino, che di recente elevata al rango universitario, ha da poco chiuso uno dei suoi workshop proprio sulla progettazione del gioco e lo storytelling.

Proprio queste due dimensioni, apparentemente lontane, sono in realtà molto vicine e simili in certi approcci creativi. A dirlo a TPI è uno dei due tutor del corso, Andrea Chiarvesio, oggi Senior Game Designer presso CMON e con esperienze lavorative in Wizards of the Coast e Upperdeck, a lui abbiamo chiesto proprio questo: “Tutte le volte che incontro una persona che fa un lavoro diverso, mi meraviglio nel ritrovare punti di contatto e analogie”, spiega riferendosi al suo collega di corso, Alessandro Avataneo che è autore e regista sia teatrale sia cinematografico.

“Pensare che una struttura di un romanzo o di una sceneggiatura e quella per creare un gioco non sono diverse, hanno delle parti in comune e i passaggi del processo creativo si toccano e si possono sovrapporre talvolta. È una consapevolezza che mi porto dietro vale a dire che entrambi progettiamo esperienze, di lettura, di visione o di gioco ma in tutte queste opzioni diverse, il tema centrale è costruire una storia”.

“Certo – aggiunge – per noi c’è il vantaggio dell’interattività, ma i punti di contatto e di contaminazione crescono basta pensare alla puntata di Black Mirror con la storia a bivi, ma anche nei giochi cosiddetti legacy (ovvero tutti quei giochi che, per un motivo o per un altro, hanno una fase di vita che dura fino al completamento dello stesso, ndr) o in tutti quelli di investigazione”.

Quello alla Holden è stato un primo esperimento (ma già si parla di fare una seconda edizione), quella che si è chiusa ad appena due settimane dall’appuntamento del PLAY è certamente un successo e per Andrea è un successo per il mondo del gioco in generale: “Viene riconosciuto da un ambito che potremmo definire più mainstream, la narrativa, la sceneggiatura, che una storia può passare anche attraverso il gioco. Alla serata finale, trovare nel pubblico il preside della Scuola Holden e grande scrittore Baricco che ascoltava e si interessava ai prototipi dei nostri 11 studenti mi ha molto colpito”.

Quanto conta lo storytelling nel gioco contemporaneo? “Farei un paragone col cinema: lo storytelling è importante, che un film abbia una bella storia da raccontare importante ma non è indispensabile, ugualmente posso fare un bel gioco senza storytelling, certamente avere una buona storia però aumenta il coinvolgimento ed è una bella spinta”.

“La cosa fondamentale dei giochi è che lo storytelling sia integrato nelle dinamiche di gioco, se è solo un fatto di “flavour”, allora non è determinante. Assume uno spazio se le cose che accadono nel gioco corrispondono alle motivazioni della storia. Il film lo fa attraverso immagini e dialoghi, il gioco attraverso le sue meccaniche. Non è aggiungendo un romanzo alle regole che si fa un buon storytelling”.

Usciti dal campo dell’insegnamento gli chiediamo quanto, nella sua esperienza professionale, ci sia distanza tra l’industria ludica nordamericana e quella italiana. “I nordamericani hanno molto chiaro che questa è una professione e si comportano di conseguenza in ogni fase della lavorazione del gioco. Noi italiani invece ancora un po’ lo consideriamo una sorta di artigianato. Il vantaggio può essere che nell’ambiente dei designer italiani ci sia più collaborazione, scambiandosi anche brutalmente giudizi e idee, ma il modo di lavorare anglosassone è un grosso vantaggio dal punto di vista organizzativo, in Italia è ancora visto come attività collaterale”.

C’entra la dimensione economica del settore, il fatto che molti lo vivano come collaterale perché gli stipendi sono troppo bassi. “Ci ho pensato anche io, e in parte è vero, però è anche un fatto di mentalità, in America anche il game designer amatoriale si comporta in un certo modo e ha un certo tipo di approccio metodico. Non dico che questa differenza sia un male, però la registro”.

Ad un giovane designer che consiglio daresti? Che skill gli servono assolutamente? Che percorso culturale e formativo gli consiglieresti? “A costo di essere banale direi di applicarcisi in maniera seria: è un lavoro e quindi va fatto 8 ore al giorno 5 giorni a settimana” Consigli pratici…

“Innanzi tutto, creare una rete di relazioni, andare a bottega da qualcuno che lo sa già fare, uscire dal proprio microcosmo. È un lavoro che è difficile imparare sui libri. Non si diventa pittori solo studiando, ma prendendo in mano il pennello”. Poi che altro? “Se vuoi fare lo scrittore devi leggere tanto e scrivere tanto, quindi per il Game Design è lo stesso: leggere molti giochi, giocarli molto e scrivere prototipi. Provare cento volte e sapere che ci saranno cento sbagli. I primi trenta prototipi saranno sempre inevitabilmente scadenti, ma è normale è giusto così, non si diventa bravi dall’oggi al domani, ci vuole costanza e naturalmente fortuna di avere qualcuno che ti insegna, e ci vuole tempo” prosegue “infine specializzarsi, scegliere un aspetto, costruirsi una area di competenza specifica da poter proporre sul mercato”.

Nel settore gioco da tavolo le uniche due figure professionali riconosciute e retribuite sono il game designer (che progetta quale sia l’esperienza e quali siano le meccaniche adatte e che siano integrate tra loro, ndr) e lo sviluppatore (che si occupa della messa a punto, facendo un secondo livello di controllo e assicurandosi che le premesse del GD vengano soddisfatte, correggendo errori di meccaniche suggerendo aggiunte o eliminazioni). All’interno di queste due attività ci si può (anzi si deve, suggerisce Andrea Chiarvesio)  trovare una propria specializzazione (giochi di ruolo, di carte, di miniature e via discorrendo).

Quello della Scuola Holden non è l’unico laboratorio didattico per il gioco da tavolo, anche la Scuola Internazionale di Comics (con varie sedi in Italia) svolge corsi analoghi, anche in questo caso è interessante notare come anche dall’esperienza – di altissimo livello – di storytelling della Scuola Internazionale nasca l’esigenza di accostare anche al fumetto anche il board game design. Le opzioni dunque a disposizione per chi volesse tentare questa strada sono molteplici.

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