Giovedì 9 ottobre il temporale su Genova sembrava un monsone. Dopo una giornata di caldo e pioggia costante, alle 23.19, la Protezione Civile ha avvertito con un sms: “Massima attenzione in area Valbisagno. Possibili esondazioni”.
Ma il Bisagno, il torrente che attraversa la città, era già esondato da tre minuti: è morto Antonio Campanella, un ex infermiere di 57 anni travolto dalla piena nella zona vicina allo stadio.
Venerdì mattina Genova si è risvegliata con le strade del centro coperte dal fango, le auto accatastate, i tronchi di alberi portati da chissà dove incastrati tra le ringhiere. C’è gente che spalava piangendo, chi affrontava la devastazione entrando con l’acqua alla cintola in negozi e cantine distrutti.
Dieci giorni dopo, Genova ha ancora i nervi a pezzi. Lo stato di massima allerta meteo è durato sino a lunedì notte, alternando momenti di calma ad acquazzoni tropicali, forti venti, lampi, fulmini. Poi è cominciata la conta dei danni. Il fiume ha allagato le vie attorno al Bisagno ed è arrivato anche nel cuore della città, nel Mercato orientale di via XX Settembre, nel Teatro della gioventù, a spettacolo in corso, nel Museo di storia naturale.
Secondo la Regione Liguria, i danni causati dall’alluvione ammontano a 250 milioni di euro, di cui 60 milioni per le urgenze più gravi. Di questi, 25 milioni solo a Genova. Le immagini delle automobili che galleggiano hanno fatto il giro del mondo, da Al Jazeera al New York Times e Reuters. Per tutta la settimana la città è diventata protagonista dell’attenzione politica e televisiva italiana, con le poltrone principali nei talk show, la retorica sulla mancata prevenzione, il clima impazzito, la cementificazione inarrestabile degli ultimi decenni.
A Genova ci sono state sei alluvioni negli ultimi quarantaquattro anni. Nel 1970, nel 1992, nel 1993; nel 2010, nel 2011 e nel 2014. Tre negli ultimi cinque anni. E per l’ennesima volta la vita riprende con lo strascico di scorie dopo un disastro in città. La polvere del fango che si asciuga, gli sciacalli che assaltano i negozi, gli insulti al sindaco di Genova Marco Doria. I fischi e le urla contro Beppe Grillo, la lite tra Santoro e Travaglio durante Servizio Pubblico.
Ci sono i negozianti di abiti che imprecano: mentre gettano in strada pacchi di vestiti da svendere in fretta, i magazzini hanno i muri sfondati dalla furia del fiume. I danni sono enormi per tutti. Alessandro Cammisotto stava montando una caldaia in via Ferreggiano, un rio esondato poco distante dal Bisagno. “Centomila euro di macchinario coperti da tre metri d’acqua”, racconta sconsolato.
Il Teatro della Gioventù, da due anni nuovo centro della vita culturale cittadina, aveva inaugurato da pochi giorni un progetto musicale con il cantante Naim Abid, voce della nota band genovese Tuamadre. “È stato tutto invaso dall’acqua”, spiega Massimo Chiesa, direttore artistico del TKC Teatro della Gioventù. “Abbiamo buttato via arredi, computer, materiale fonico e musicale appena comprato. In totale avremo danni per 400mila euro, ma dobbiamo riaprire con il paziente sano. L’importante è reagire il più velocemente possibile: altrimenti in Italia c’è il rischio che ogni menomazione diventi permanente”.
Non è tutto da buttare, sia chiaro. In poche ore di chattate sono riapparsi gli Angeli del fango, i volontari che dopo lo scorso disastro aiutarono la città a liberare le strade dai detriti e furono ricevuti dal presidente della Repubblica Giorgio Napolitano. Ora hanno una pagina Facebook da 40mila like, altre decine di migliaia si disperdono tra gruppi a loro vicini: in gran parte giovani, studenti liceali e universitari, che hanno dedicato il loro tempo libero alla città.
Ma anche qui non sono mancate le polemiche. È nata una contropagina per insultarli, sui giornali si sono alternate stucchevoli elegie e critiche feroci verso chi imbraccia la pala solo per mostrarsi impiastricciato nei selfie. I social network sono stati invasi da una campagna promossa da movimenti di destra ed estrema destra, per dimostrare come gli immigrati stessero con le mani in tasca mentre gli “italiani veri” spalavano.
Si trattava di bufale razziste, ovviamente. Tarik Chibi, il responsabile di Al Fajer, un’associazione che raccoglie i musulmani di una moschea della città vecchia, racconta: “Ci siamo divisi in piccole squadre, per andare nei quartieri dove c’è bisogno. Siamo genovesi e dobbiamo aiutarci tra di noi”.
E così hanno fatto le comunità di senegalesi e sudamericani, tra le più numerose di Genova. “Ma non chiamateci Angeli”, precisa Alessandro Mantovani, studente genovese emigrato a Bologna, tornato a Genova apposta per spalare. “Non siamo creature dotate di divina intelligenza o di poteri superiori, e meno che mai siamo mossi dalla bontà di un dio. Siamo giovani di ogni strato sociale che fanno del loro senso civico un’azione concreta”.