I giudici di secondo grado della Corte di appello di Torino l’11 gennaio 2019 hanno ribaltato la sentenza di primo grado sul caso Foodora accogliendo parzialmente le richieste di cinque ex fattorini, allontanati dall’azienda di food delivery dopo le proteste di piazza contro la paga oraria.
I rider avevano chiesto il reintegro, l’assunzione, il risarcimento e i contribuiti previdenziali non goduti a causa del licenziamento.
Nella sua sentenza, laCorte ha riconosciuto “il diritto degli appellanti a vedersi corrispondere quanto maturato in relazione all’attività lavorativa da loro effettivamente prestata in favore di Foodora sulla base della retribuzione diretta, indiretta e differita stabilita per i dipendenti del quinto livello del contratto collettivo logistica-trasporto merci dedotto quanto percepito”.
L’azienda è anche obbligata dai giudici a riconoscere ai cinque fattorini un terzo delle spese di lite, che tra primo e secondo grado ammontano in totale a poco meno di 30mila euro.
È stata invece respinta la richiesta di riconoscere la sussistenza del licenziamento discriminatorio.
“È una prima risposta a questa giungla di aziende che tentano di eludere le leggi per pagare una miseria i lavoratori, trattandoli come schiavi”, ha affermato l’avvocato Giulia Druetta
“Il giudice ha equiparato i rider a dei fattorini e quindi anche per loro vale il contratto di lavoro subordinato, con richiamo all’articolo 2 del Jobs Act. Non si può fissare una retribuzione minima non tenendo conto delle tutele per i lavoratori questa è una sentenza ragionevole, anche se ci sono ancora delle cose da discutere, in primis il licenziamento”.
“Questa azienda è riuscita nell’impresa di costruire un meccanismo tale per cui questi fattorini venivano pagati meno di quello che, all’epoca, era la metà del corrispettivo di un voucher per lavoro occasionale”, ha aggiunto un altro legale dei dipendenti Foodora, Sergio Bonetto. “Una miseria. Sulla carta la gestione dei collaboratori da parte di Foodora era leggerissima e deregolata. Nella pratica era piena di obblighi”.
Di diverso parere l’azienda, secondo cui “si trattava di prestazioni a intermittenza che non possono essere ricondotte nella disciplina del lavoro subordinato”.
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