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Io, figlia di una malata di Aids, vi chiedo: e se un giorno l’Hiv bussasse alla vostra porta?

Una lettrice ha voluto scrivere a TPI per raccontare l'Aids da un punto di vista diverso: quello di una figlia che per anni ha convissuto con la malattia della madre

Di TPI
Pubblicato il 20 Feb. 2017 alle 19:42

In Italia, di Aids ci si ammala e si muore: siamo il secondo paese in Europa per incidenza della malattia, dopo il Portogallo. Gli italiani si ammalano per disinformazione e ignoranza sulle modalità di trasmissione di un virus che nel biennio 2012-2013 ha causato 645 decessi. 

Dopo gli articoli che hanno messo in luce lo stile di vita e le storie dei sieropositivi nel nostro paese, una lettrice ha voluto scrivere a TPI, per raccontare l’Aids da un punto di vista diverso: quello di una figlia che per anni ha convissuto con la malattia della madre. La lettrice racconta il terrore, la solitudine, la paura e la desolazione nello scoprire che un terribile virus sta sciupando la vita di una delle persone più care al mondo.

Di seguito il testo della lettera:

Era il 1999 e avevo 17 anni, ero un’adolescente come tante, un po’ ribelle ma con la testa sulle spalle, la mattina andavo al liceo e il pomeriggio lavoravo in un negozio. Conducevo una vita normale, simile a quella di molte coetanee, i miei e genitori si erano separati qualche anno prima e io vivevo con mia madre.

Nel 1999 mia madre aveva 41 anni, era veramente bellissima, spesso capitava che ci scambiassero per sorelle, era divertente.

Poi un giorno, d’improvviso, tutto è cambiato.

Sempre più spesso la vedevo stanca, anche un semplice raffreddore sembrava non passarle mai. Ricordo distintamente la mia confusione: temevo che, prima o poi, lei mi confessasse di avere un male incurabile, per questo ero restia a farle domande di qualunque tipo.

Un giorno l’avvilimento forte che provavo mi spinse a chiederle cosa stesse succedendo, qual era il nome della malattia che a poco a poco la stava consumando. Lei mi rispose con semplicità e paura, mi disse soltanto: “sono sieropositiva”.

Fu come se un pugile mi avesse travolto con una scarica di pugni, tramortita e dolorante, ancora oggi ripensando a quel momento riesco a ricordare il dolore che ho provato. Mai avevo immaginato che mia madre potesse essere affetta da Aids, ma avevo avuto la mia risposta, seppur dolorosa. Aprì la porta di casa alla malattia e le dissi in qualche modo di accomodarsi nelle nostre vite.

Di lì a breve ci fu il suo primo ricovero nel reparto infettivi in un ospedale della nostra zona: la malattia non solo si era prepotentemente insediata nelle nostre vite ma aveva coinvolto anche tutta la famiglia. Il primario del reparto mi disse che il virus con cui l’Aids si era manifestato era molto aggressivo, il più aggressivo di tutti, e che molto probabilmente mia madre, la mia mamma, sarebbe morta.

Ma di cosa stavamo parlando? Mia madre era a conoscenza della sua malattia già da due anni ma il rifiuto per questa condizione le aveva impedito di iniziare a curarsi da subito. E se lo avessi fatto? Avevo mille domande che avevano bisogno di una risposta. 

Il ricovero durò circa due mesi durante i quali provai a condurre la mia vita con normalità, ma quando la sera tornavo a casa mia mamma non c’era, era in ospedale e mi chiedevo se sarebbe mai tornata a me. Per quell’anno lasciai la scuola e mi concentrai solo sul nostro “ospite”: la malattia doveva essere curata e coccolata, guai a farla incazzare, cosa sarebbe potuto accadere?

Iniziammo così, io e mia madre, questo cammino lungo la strada dei malati di Aids.

Nei due mesi successivi seguì la terapia in day hospital. Ricordo la stanza dove mia mamma e tanti, tantissimi altri pazienti con Hiv venivano a curarsi: ognuno di loro aveva una storia, come noi del resto, in ognuna si percepiva un’unica paura: non la paura della morte, ma quella della malattia stessa.

Oggi sono passati 20 anni e la mia mamma è ancora qui con me, non è morta come disse il primario, quel virus le ha causato la cecità da un occhio, ma ha lottato con le unghie e con i denti per esserci, ha visite costanti con un medico infettivologo che monitora il decorso della malattia e controlla i dosaggio dei farmaci.

Questa è la mia storia, non so spiegare quanto sia stato difficile prendere consapevolezza della malattia di mia mamma e sinceramente non so se io ne abbia totale contezza. So solo che non ho avuto scelta, non ho potuto dire “Grazie, ma non sono interessata”; è andata semplicemente così. 

Questa malattia non significa morte ma prevenzione. Provate a rifletterci, se non volete un tumore ai polmoni è meglio che non fumiate ma non è detto che questo non si presenti.

Se però non volete essere malati di Hiv siete liberi di scegliere. È così che oggi vivo: con la consapevolezza delle mie scelte. Amate sempre e non discriminate, i malati sono tutti uguali.

—LEGGI ANCHE: “La peste dei gay”: vivere con l’Aids in Italia dal 1984 ad oggi

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