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Famiglie arcobaleno: quei bambini senza diritti

Il commento di Chiara Sfregola, attivista per il diritti Lgbtq e scrittrice, sulle dichiarazioni del ministro leghista Fontana e sul caso delle due mamme di Roma che non hanno potuto registrare la figlia all'anagrafe

Di Chiara Sfregola
Pubblicato il 4 Giu. 2018 alle 14:11 Aggiornato il 11 Set. 2019 alle 19:55

A due giorni dalla dichiarazione del leghista Lorenzo Fontana, neo ministro della famiglia e della disabilità (il dicastero che il “Governo del cambiamento” ha istituito in vece delle care vecchie Pari Opportunità) sul fatto che “per la legge le famiglie arcobaleno non esistono”, dobbiamo fare i conti con una battaglia lasciata a metà, quella per i diritti civili, e con il vuoto normativo in materia di bambini nati da coppie dello stesso sesso, i veri feriti di questa vicenda.

Sebbene la dichiarazione di Fontana, dato anche il suo profilo di cattolico antiabortista, non lasci presagire affatto la volontà di rendere pari le famiglie arcobaleno e quelle “classiche”, e sebbene ormai esistano le unioni civili, un’istituzione che da molti punti di vista regola la creazione di nuove famiglie, è vero che lo stralcio della stepchild adoption, di fatto lascia la situazione di questi bambini in mano alla discrezione individuale di magistrati e funzionari dell’ufficio anagrafe, creando una disparità di trattamento non solo rispetto ai bambini nati dalle coppie etero, ma addirittura rispetto a quelli nati in altre coppie gay, a seconda del comune di residenza.

Prendiamo il recente caso di Roma, in cui, su indicazione della Corte d’Appello, si è recentemente provveduto alla trascrizione dell’atto di nascita di un bambino nato in Canada da una coppia di papà, ma dove pochi giorni fa l’ufficiale di stato civile si è nuovamente rifiutato di riconoscere (come denunciato da TPI) come secondo genitore di una bambina la madre non biologica, che pure ha prestato il consenso al trattamento di fecondazione eterologa e che quindi, come da legge 40, non solo dovrebbe figurare come secondo genitore, ma non potrebbe nemmeno esercitare l’azione di disconoscimento di maternità.

La coppia ha chiesto alla sindaca Raggi un’udienza, che è stata negata, diversamente dal caso dell’altra sindaca pentastellata, la torinese Chiara Appendino, che dopo un’iniziale latitanza ha provveduto a trascrivere l’atto di nascita di 3 bambini.

(Dal Campidoglio fanno sapere a TPI che la sindaca si è rivolta al ministero dell’Interno per un approfondimento, che a sua volta ha chiesto delucidazioni all’Avvocatura dello Stato: leggi l’articolo)

Un atteggiamento, quello della Raggi, che ricorda il “non sa, non risponde” di certi sondaggi. Un limbo delle idee in cui però, stavolta, finiscono bambini che non hanno altra colpa se non quella di nascere in un modo in cui chi nasce nella città sbagliata, ma in una famiglia con i mezzi necessari per pagarsi un avvocato potrà ricorrere in appello e ottenere un riconoscimento.

E chi invece nasce in una famiglia meno ricca può solo sperare di nascere nella città giusta, elemosinando un riconoscimento dovuto al buon cuore dei rappresentanti delle istituzioni. Ma la legge non doveva essere uguale per tutti? E i cittadini, non dovevano essere tutti uguali davanti alla legge?

Ricordiamo fra l’altro che è anche grazie alla “Libertà di coscienza” dei parlamentari 5 stelle durante la discussione della legge Cirinnà, che la stepchild adoption non è passata, lasciando migliaia di bambini privi del diritto di avere dei genitori che si prendano cura di loro con ogni mezzo, fosse anche l’obbligo di legge.

Perché le famiglie arcobaleno non esisteranno per Fontana, ma esistono nel mondo reale, quello in cui pagano le tasse (e si vedono i redditi cumulati), iscrivono i figli al nido (ma in quel caso risultano genitori single) li portano dal medico quando sono malati, e vivono con il terrore che il personale di turno faccia storie perché per legge non uno dei due non è il genitore biologico del bambino. Le famiglie arcobaleno esistono eccome, e pagano più di altre lo scotto di vivere in uno Stato che non tutela i suoi cittadini allo stesso modo.

A due anni dalla discussione della legge Cirinnà, davanti ai buchi normativi lasciati lì dall’ipocrisia di certi, sarebbe un segno di maturità, per la prima cittadina della capitale, riconoscere la realtà dei fatti e prendere una posizione garantista, provvedendo personalmente a impegnarsi per sanare questa situazione, nel rispetto del suo incarico, fornendo un esempio positivo per tutte le altre città d’Italia.

E di buoni esempi, in Italia, in questi giorni, c’è bisogno come il pane.

 

*Articolo a cura di Chiara Sfregola
Leggi l'articolo originale su TPI.it
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