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“L’Amore strappato? Non è solo una fiction, ecco perché il sistema non funziona”, l’avvocato a TPI

Dalla fiction di Canale 5 "L'amore strappato"

Cristina Franceschini, avvocato e fondatrice della onlus Finalmente liberi, spiega come lo scollegamento tra procure e tribunali per minorenni possa comportare errori e ritardi nell'allontanamento dei minori dalla famiglia

Di Anna Ditta
Pubblicato il 1 Apr. 2019 alle 16:52 Aggiornato il 12 Set. 2019 alle 03:00

La storia di una bambina sottratta ingiustamente alla sua famiglia e data in adozione è il tema al centro de L’amore strappato, fiction di Canale 5 con protagonista Sabrina Ferilli, il cui primo episodio è andato in onda domenica 31 marzo.

La serie è liberamente ispirata alla vicenda realmente accaduta ad Angela Lucanto e raccontata nel libro “Rapita dalla giustizia” scritto dalla protagonista della storia insieme ai giornalisti Maurizio Tortorella e Caterina Guarneri (Rizzoli, 2009).

La storia è quella di un clamoroso errore giudiziario dopo che il padre di Arianna (questo il nome della bambina nella serie tv) viene accusato di molestie sessuali nei confronti della figlia, arrestato e condannato in primo grado, prima di essere assolto in appello e in Cassazione con sentenza definitiva. Nonostante le accuse vengano smontate, Arianna viene data in adozione a una nuova famiglia, dalla quale si separa poco prima di aver compiuto 18 anni per tornare dalla sua famiglia d’origine.

Ma davvero in Italia possono accadere casi come quello vissuto dalla famiglia Lucanto? TPI ha intervistato l’avvocato Cristina Franceschini, che si occupa di minori allontanati dalla famiglia e ha fondato l’associazione Finalmente liberi onlus. 

Avvocato, in Italia si verificano casi simili a quello di Angela Lucanto? Se sì, con quale frequenza?

Purtroppo non posso conoscere la frequenza, posso parlare solo dei casi che seguo come avvocato difensore in ambito civile, mentre per il penale mi interfaccio con qualche collega.

Posso confermare però lo scollegamento tra procura ordinaria, che magari indaga per maltrattamenti o abusi, e tribunale per minorenni. Questo scollegamento può essere più o meno netto, ma è un dato di fatto.

Quindi ci sono casi in cui il genitore viene assolto in via definitiva, ma il minore non torna alla famiglia?

Sì, ma faccio anche un altro esempio. Ci sono casi in cui il minore scappa dalla famiglia dicendo di essere stato picchiato, ma poi durante l’incidente probatorio ritratta e dice di essersi inventato tutto perché voleva fare un dispetto. Lo ammette dopo essere stato subito allontanato, quindi senza che la sua versione possa essere stata manipolata da nessuno. Ciononostante, passano comunque mesi o anni affinché possa tornare a casa. Questo non può accadere.

Può farci altri esempi?

Ho seguito personalmente il caso di un bambino allontanato da casa con una misura d’urgenza dopo una segnalazione partita dalla scuola. Il bambino è caduto mentre si trovava nell’istituto scolastico e ha sbattuto la fronte. Poi è stato assente una settimana per un’influenza intestinale e quando è tornato a scuola aveva gli occhi lividi perché l’ematoma era sceso dalla fronte agli occhi, ed è partita una segnalazione per maltrattamento.

Cos’è che non funziona?

Lavorando nei tribunali minorili ho potuto constatare tante cose che non vanno.

Mi sono anche confrontata con tante ottime realtà, anche di comunità, di servizi sociali buoni. Di certo non voglio puntare il dito contro tutto il sistema, ma se ci sono di mezzo i bambini non deve esserci neanche una cosa che non va.

Sarà utopistico, ma se c’è qualcosa che non funziona e la politica viene allertata, bisogna correre ai ripari e rimediare quanto prima. Invece spesso non si sa neanche da dove partire.

Quando può essere disposto l’allontanamento di un minore?

L’articolo 403 che consente l’allontanamento immediato è generico perché parla di situazione di “abbandono morale o materiale”. Ci sarebbe bisogno di specificare qualcosa di più. Sono state proposte delle modifiche di questa norma ma adesso è tutto fermo.

La Commissione bicamerale per l’infanzia e l’adolescenza, cui ho collaborato, ha già stilato un documento con tutte le criticità, frutto del lavoro di anni. Ora bisogna intervenire e iniziare a cambiare qualcosa, non nascondere la polvere sotto il tappeto.

Prima parlava di uno scollegamento tra procura ordinaria e tribunale per minorenni. Che intende?

Questi due organismi intervengono sulla base della stessa segnalazione, proveniente ad esempio dalla scuola o dal pediatra.

La procura indaga sui comportamenti dei genitori, per capire se integrano un reato, invece la procura minorile apre un procedimento che va a incidere sulla loro responsabilità genitoriale.

Mentre sono in corso le indagini, spesso al tribunale per minorenni non si vengono a sapere neanche i motivi, perché è tutto sottoposto al segreto istruttorio.

A volte si ha accesso al fascicolo dopo mesi dall’allontanamento, durante i quali il genitore non sa dove si trovi il figlio e perché gli sia stato tolto. Manca un vero contraddittorio.

Inoltre bisogna fare attenzione alla valutazione psicologica del minore e alla valutazione genitoriale: se queste avvengono dopo l’allontanamento, per me sono già inficiate.

Dopo le indagini, se emerge che i motivi dell’allontanamento sono fondati viene confermato l’allontanamento, altrimenti il figlio viene riconsegnato alla famiglia. Ma in questo secondo caso vuol dire che non doveva essere tolto. Allora io dico, nel momento in cui ci sono delle condotte incerte, adottiamo misure alternative, in modo da non incorrere in questo errore.

Che intende con “misure alternative”?

Mi riferisco a progetti diversi. Se ci sono delle difficoltà contingenti nelle famiglie – ad esempio un genitore si ammala e non può seguire i figli al meglio – il servizio pubblico può intervenire in base alla legge sull’adozione e sull’affidamento. L’ente comunale deve fornire tutti gli strumenti possibili per poter crescere il bambino all’interno della famiglia.

Ad esempio, se ci sono delle criticità a livello psicologico, bisogna fornire supporto psicologico. Se le difficoltà sono nel quotidiano forniamo assistenza domiciliare. Lo Stato non può togliere il bambino e dire: vediamo, poi casomai te lo ridiamo. Questo ovviamente solo nel caso in cui il problema non sia talmente grave da comportare la misura dell’allontanamento immediato.

Quando viene decretata invece l’adottabilità? Su che basi?

È il tribunale dei minori che prende provvedimenti sulla responsabilità genitoriale. Quando dichiara decaduta la potestà e il bambino diventa adottabile si apre l’affidamento preadottivo presso una famiglia, che poi diventa adozione quando c’è un riscontro positivo.

Lei ha creato una onlus che si occupa di questi temi. Come mai?

Per entrare in contatto con le istituzioni e fornire loro qualche referente con cui confrontarsi. Ma la onlus ha fatto soprattutto opera di denuncia e di raccolta dati.

Lei ha denunciato anche conflitti d’interessi tra i giudici onorari minorili e le strutture per minori. Ci può dire qualcosa su questo?

Ho scoperto che molti giudici onorari minorili lavoravano all’interno di comunità. Già dal 2010 una circolare del Csm vieta ai giudici onorari di avere cariche rappresentative all’interno di comunità, ma nonostante questo qualcuno continuava a farlo.

Accadeva inoltre che alcuni di loro lavorassero nelle comunità, magari come psicologi, senza essere dirigenti. Questa situazione, che è un caso di incompatibilità e può creare conflitti d’interessi è stata denunciata in vari articoli, soprattutto di Panorama, grazie al vicedirettore Tortorella.

Nel 2015 il Csm si è espresso con una nuova circolare, che vieta ai giudici onorari e ai loro parenti di lavorare all’interno di strutture per minori a qualsiasi titolo, ma mancano i controlli: è lo stesso giudice onorario che autocertifica di non lavorare o non aver lavorato in una comunità, e poi il presidente del tribunale avalla la candidatura. Intanto, così almeno in passato, nei loro curricula caricati online si leggeva che erano anche dirigenti di una comunità quindi se ancor oggi mancano controlli puntuali, non si può aver certezza che non esistano tuttora casi di incompatibilità. 

Un’altra denuncia che ho fatto dal 2013 è quella di comunità, per lo più a valenza terapeutica, che avevano rette talmente alte da arrivare a 400 euro al giorno per un minore, a fronte di servizi non particolarmente validi. A pagare sono le regioni o i comuni, talvolta con la co-partecipazione dei familiari dei minori.

Quanti minori in Italia sono stati allontanati dalla famiglia?

Non c’è una raccolta dati esaustiva, anche se l’Autorità Garante per l’infanzia e l’adolescenza, Filomena Albano, ha chiesto di calcolare il numero dei minori adottabili. Ci sono però delle raccolte parziali.

La più recente sostiene che ci siano oltre 20mila bambini in comunità, ma mancano i dati di quelli in affido familiare e il flusso nel relativo anno, dati che per esempio erano presenti in un altro report pubblicato nel 2011 parla di circa 15mila bambini in famiglia affidataria e 15mila in comunità. Si parla inoltre di un flusso di altri 10mila bambini entrati e già usciti dalle comunità nel corso del 2010. Quindi già allora si parlava concretamente di 40mila minori.

Ad oggi manca una banca dati certa ed esaustiva, che contenga anche i motivi dell’allontanamento, che sono la cosa più importante.

L’unico report che vi fa riferimento è quello del 2011, che parla come motivo principale (il 37 per cento dei casi) di “inadeguatezza genitoriale”, e all’interno di questa percentuale fa rientrare anche i problemi economici. Ma lo Stato non può allontanare i bambini per motivi di indigenza economica (legge 184 del 1983), piuttosto deve mettere a disposizione tutte le risorse possibili affinché il bambino non sia allontanato.

Che riscontro ha avuto finora nella sua attività?

Ci sono operatori che lavorano con buonsenso, non vogliono far sprecare denaro pubblico né provocare traumi al bambino e si mettono a disposizione della famiglia. Ma ci sono anche quelli in cui trovi le porte chiuse, non si mettono in discussione, e si cerca di trovare comunque una linea comunicativa. Ma intanto passa il tempo.

Spesso sono gli stessi servizi sociali che chiedono aiuto nell’interpretare le norme e de-istituzionalizzare il bambino, questa è la più grossa soddisfazione. Quando anche chi lavora nell’istituzione riconosce che c’è qualcosa che non va e prova a trovare una soluzione per il bambino, è la più grande vittoria, proprio perché si tiene ad una vera tutela del piccolo.

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