“Se i governi non si muovono, i cittadini devono muoversi da soli. Bisogna agire, con la lotta, anche dura. Con la tolleranza e il conflitto. Perché da questa fase non si esce senza questo binomio e senza alleanze”.
Dopo una lunga carriera in Banca d’Italia, Tesoro, Ocse e Commissione europea e una carica di ministro nel Governo Monti (delega alla Coesione territoriale), Fabrizio Barca oggi è nella Fondazione Basso e lavora con il mondo dell’associazionismo.
È tra i fondatori del Forum Disuguaglianze, un’alleanza che mette insieme illustri accademici con associazioni di estrazione varia, da Caritas a Legambiente, allo scopo di elaborare politiche contro il divario crescente tra chi sta meglio e chi sta peggio.
Barca, 64 anni, è uomo di sinistra, da sempre: suo padre Luciano fu un importante dirigente del Partito comunista italiano.
Nel 2013 aveva aderito al Partito democratico. Con il progetto Luoghi Ideali propose un rinnovamento strutturale che restituisse centralità ai circoli territoriali. Ma, dice, “il Pd ha reagito con un muro di gomma”.
Di recente Barca ha partecipato al Festival della partecipazione, a L’Aquila: “Il messaggio che ne è emerso”, spiega, “è che, se ci lavoriamo sodo tutti insieme, è possibile per noi cittadini tramutare la nostra rabbia per le disuguaglianze non in un regresso sociale, ma nella costruzione di una nuova fase di emancipazione”.
L’obiettivo è molto semplice: battersi per un’inversione radicale delle politiche, che premi i vulnerabili, gli ultimi e i penultimi, e non soltanto i primi.
La peculiarità del forum è che affianca ad accademici importanti la conoscenza sul campo di otto organizzazioni di cittadinanza che praticano soluzioni, dunque esperienze dal basso.
Sì, durante gli anni della crisi, tra il 2008 e il 2014, la quota di ricchezza posseduta dai 5mila adulti più ricchi d’Italia – attenzione: adulti, cioè individui presi singolarmente, non famiglie – è quintuplicata, passando dal 2 al 10 per cento del totale della ricchezza nazionale privata. Al contempo, il 50 per cento meno ricco degli italiani possiede il 5 per cento della ricchezza.
Questo dà il senso di cosa è avvenuto. La crisi non è la causa delle disuguaglianze, ma ne ha accelerato la dimensione, facendo precipitare in tutto l’Occidente la rabbia di coloro che patiscono l’ingiustizia di queste cifre.
Certamente, ma prima occorre fare una premessa. Vede, oltre alla disuguaglianza economica, di cui abbiamo appena parlato, esistono almeno altri due tipi di disuguaglianze.
Ci sono anche le disuguaglianze sociali, che si riferiscono alla possibilità di accesso ai servizi fondamentali: fasce crescenti della popolazione si trovano ad aver subito un deterioramento nella qualità dei servizi fondamentali, come la salute o la scuola.
E poi ci sono le disuguaglianze di riconoscimento, che riguardano chi, pur non avendo magari subito un impoverimento economico o nell’accesso ai servizi, percepisce di non suscitare attenzione in chi governa, di essere trascurato nel pubblico dibattito e nelle misure di politica economica.
Queste tre disuguaglianze hanno diffuso il convincimento che non ci sia futuro, che le classi dirigenti si occupino soprattutto delle fasce alte del ceto urbano borghese, dicendo che va tutto bene, che il cosmopolitismo è una cosa buona, che la tecnologia ci fa avanzare, quando invece i benefici di questo progresso, di questa apertura, di questa globalizzazione arrivano solo ad altri.
Nelle persone che subiscono queste disuguaglianze è quindi maturata l’idea che ci sia una sola strada: quella di andare indietro. Bloccare le tecnologie, il progresso, la globalizzazione: erigere muri, prendersela con qualcun altro. E qui arriva l’elemento dell’intolleranza. Quando io non riesco a migliorare la mia condizione e ho perso la speranza, sono tentato di scaricare la mia rabbia su “altri”, magari su chi sta ancora peggio di me. È la battaglia degli ultimi contro gli ultimi, dei vulnerabili contro i penultimi.
Sono necessari interventi radicali su almeno tre fronti: il passaggio generazionale, la tecnologia, che deve portare un beneficio per tutti e non solo per alcuni, e il lavoro, perché non è tollerabile nel capitalismo uno squilibro così forte tra potere del lavoro e potere degli imprenditori.
Aggiungo un quarto fronte: il modo in cui funziona la pubblica amministrazione, che non può più pretendere di dare ordini ai territori. La pubblica amministrazione deve cambiare e capire che qualsiasi disegno, che sia in materia di sanità, di scuola, di mobilità o altro, richiede un dialogo con i cittadini. E questo non per raggiungere consenso, ma perché la conoscenza è oggi in larga misura nei territori.
Negli ultimi 10-15 anni ha prevalso la concezione secondo cui il mondo del lavoro è cambiato ed è giusto e inevitabile che ognuno contratti il proprio lavoro. L’idea di un mondo del lavoro che si organizza è passata come vecchia.
Su questa favola ideologica si è costruito un indebolimento sistematico delle organizzazioni sindacali. Non è stato un evento naturale, è stato ricercato: le politiche hanno costruito questo indebolimento cambiando le norme.
La cosa da fare, allora, è molto semplice: bisogna eliminare tutte quelle norme che hanno indebolito le organizzazioni del lavoro, dando a queste la forza e la capacità di riuscire a organizzare anche quel lavoro frazionato, il lavoro della gig economy, dei riders, dei grandi centri di servizi a basso contenuto di competenza.
Come farlo? Questa è una delle tre sorprese che, come Forum Disuguaglianze, presenteremo a marzo dell’anno prossimo. Stiamo lavorando a un pacchetto di proposte che toccherà i tre punti di cui ho parlato prima.
Ci rivolgeremo prima di tutto ai cittadini, perché i governi li scegliamo noi. Non è che i cittadini possono aspettare che i governi si muovano: se i governi non si muovono, i cittadini devono muoversi da soli.
Abbiamo capito, noi cittadini, che bisogna agire, con la lotta, anche dura, con il conflitto, quello che parte dalla tolleranza, dalla comprensione, per il punto di vista degli altri, e che conduce a costruire alleanze. Perché da questa fase non si esce senza conflitto e alleanze.
La sinistra deve ripartire dall’associazionismo?
No, l’associazionismo è autonomo. La sinistra dovrebbe ripartire costruendo un’organizzazione che sappia dialogare con le associazioni, non che le usi o offra candidature. Deve ripartire costruendo un’organizzazione, una lettura del paese, una strategia. E se lo fa ascoltando ciò che le associazioni le suggeriscono, fa una cosa saggia.
In Italia di partiti oggi ce n’è uno solo ed è la Lega. Il Pd? Un partito che ha un organo di indirizzo di 140-150 membri non è un’organizzazione. È una costellazione di persone e di pensieri separati: non sembra essere in grado di elaborare una linea politica. Servirebbe al paese, ma…
Ho fatto la mia battaglia, persa, dentro il Pd per convincerlo che prima di ogni altra cosa, invece di litigare tra le persone, si dovesse modificare l’organizzazione, utilizzando le strutture dei circoli. E poi costruire una strategia. Ma questa ipotesi è stata allegramente respinta.
È una bella domanda. Diciamo che l’iscrizione a un partito è una faccenda privata.
È un processo che inizia molto prima di Renzi e della nascita del Partito democratico. È stato un processo culturale. E non è nemmeno un fatto solamente italiano, ma riguarda tutti i partiti socialdemocratici d’Europa, il Partito laburista inglese e anche il Partito democratico americano.
Nasce dall’insuccesso delle classi dirigenti socialdemocratiche nell’affrontare le novità che i successi della socialdemocrazia stessa, come l’istruzione di massa, avevano provocato.
Tra la fine degli anni Settanta e l’inizio degli Ottanta Reagan e la Thatcher colsero i problemi della socialdemocrazia, malfunzionamenti del welfare. Di fronte a questo attacco la classe dirigente socialdemocratica non ha saputo trovare una risposta e si è progressivamente convinta della sostanziale immutabilità del capitalismo predicata dalla dottrina neo-liberale. Si è convinta che, in fondo, avessero ragione loro.
L’ultima botta l’ha data la fine dell’Unione sovietica: l’esistenza di un’alternativa spingeva le classi dirigenti occidentali a una disponibilità al dialogo con le forze di sinistra. Con la caduta dell’Urss questa disponibilità è improvvisamente venuta meno. E questo ha pesato su tutta la classe dirigente del “centrosinistra”, da Clinton a Blair a D’Alema.
Hanno colto la rabbia e il risentimento, che la classe dirigente, anche di centrosinistra, non ha saputo invece percepire.
La Lega e il Movimento Cinque Stelle lo hanno fatto sia stando davvero di più in mezzo alle “persone comuni” e sperimentando forme diverse di partecipazione, sia “lisciando il pelo a quella rabbia”.
Non avendo in genere la forza, la capacità o la volontà di proporre a livello nazionale una strada di avanzamento sociale per uscire dalle disuguaglianze , i due partiti, uno più dell’altro, hanno assecondato le pulsioni autoritarie che la rabbia porta con sé: l’intolleranza per la diversità, il rifiuto delle istituzioni e degli “esperti”, la domanda di autorità forti che sanzionino le “devianze”.
Cose che configurano una vera e propria regressione sociale. E, dato che non c’erano alternative, o che le persone non percepiscono al momento alternative, questi partiti anti-elitari sono apparsi come la cosa meno peggio da votare.
Non esistendo ancora testi definitivi, è difficile commentarla. Per ora si è trattato soprattutto di un inseguimento sui numeri per cercare di dimostrare agli italiani che finalmente c’è un governo duro nei confronti di Bruxelles.
Nel merito ho visto per ora la promessa di condoni ai ricchi, mentre è interessante la proposta di ampliare l’intervento di contrasto della povertà.
Quello non è un reddito di cittadinanza: i Cinque Stelle lo chiamano così, ma non lo è. Reddito di cittadinanza vuol dire un reddito per tutti i cittadini.
Se andiamo al sodo, quella è una misura interessante, ma anche lì bisognerà vedere come sarà approvata. Se il Governo, per il gusto di dire ‘me la sono inventata io’, spezzerà il lavoro già in corso sul reddito di inclusione, che mirava a raggiungere 2,5 milioni di persone in povertà assoluta (1 milione risulta oggi raggiunto) con circa 200 euro, saremo nei guai.
Se invece il Governo avrà l’intelligenza di proseguire nello strumento già esistente, aumentando i beneficiari da 2,5 a 5 milioni, il totale dei poveri assoluti, e raddoppiando l’ammontare del trasferimento, allora avrà fatto un passo importante in avanti per i cittadini in massima difficoltà e comprensibile anche dai cittadini di tutta Europa che ci stanno guardando.
In questo caso sarà evidente che nel Governo esistono due anime completamente diverse: un’anima che ha attenzione alle disuguaglianze e un’altra che ha invece come vero obiettivo quello di aumentare la ricchezza dei ricchi.
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