La sera del 27 maggio un’automobile ha investito un gruppo di persone che aspettavano l’autobus a Roma. Una donna filippina di 44 anni è morta sul colpo e otto persone sono rimaste ferite.
L’auto non si è fermata all’alt della polizia e ha proseguito la sua corsa a zig zag nel traffico, inseguita dalle autorità. Quando finalmente la vettura è stata intercettata e bloccata, due ragazzi sono fuggiti a piedi. Una terza persona, una minorenne di 17 anni, è stata fermata dalla polizia e portata in caserma.
Il dolore delle famiglie delle vittime è comprensibile. È comprensibile la loro cieca rabbia, l’indignazione verso il degrado del quartiere di Roma in cui vivono, l’accusa alle autorità che “non hanno mai messo piede in quelle strade”, la disperazione nel veder morire una persona in modo così assurdo.
È comprensibile che i vicini, gli amici, i parenti della vittima e dei feriti abbiano voluto esprimere la loro solidarietà con una fiaccolata. La trasformazione di quel dolore in odio verso un particolare gruppo etnico, però, spaventa.
La minorenne fermata è una ragazza d’etnia rom. Anche gli altri due ricercati, fuggiti dopo l’incidente, sono minorenni e d’etnia rom. Ancora non sono stati fermati.
Ciò che spaventa è la caccia all’uomo che diventa la caccia al rom. Spaventano i cartelli della manifestazione in cui si legge “adesso ci mettiamo noi a investire i rom”. Spaventano i media che danno voce alle frasi piene d’odio degli abitanti del quartiere, senza contestualizzare.
Secondo le ultime statistiche Istat, in Italia nel 2013 sono morte 3.385 persone a causa di incidenti stradali. La sera dell’incidente del 27 maggio la persona al volante era un giovane d’etnia rom.
Il collegamento tra questo fatto e la campagna d’odio, tuttavia, è infondato dal punto di visto logico. Manca il nesso causale: si incolpa l’etnia, come se essere rom o italiano fosse rilevante in questo caso e potesse rendere questa tragedia più o meno dolorosa.
La colpa di un individuo, che non va assolutamente giustificato o perdonato, viene collettivizzata. Ed è questo il problema. Nei discorsi di chi istiga alla caccia al rom diventa colpevole non solo chi guidava, ma anche quelli che vivevano con lui nel suo campo.
Colpevoli tutti i rom d’Italia. Colpevoli i politici che hanno permesso ai rom di farsi i comodi loro per tutti questi anni, colpevoli le associazioni per i diritti umani che si schierano al fianco dei rom.
Il ragionamento può sembrare paradossale, ma se lo stesso atteggiamento ci fosse stato per casi di incidenti stradali letali dovuti a stato di ebrezza, avremo dovuto puntare il dito contro il barista che diede da bere a quel guidatore, all’amico che non ha protestato quando è salito in macchina con lui o con lei, ai genitori che non gli/le hanno insegnato che dopo un goccetto di troppo non si guida.
La rabbia generalizzata contro i rom in seguito a questo incidente è fuori luogo, perché l’etnia non rende un pirata della strada più colpevole di un altro. Ma se la rabbia di quel quartiere di Roma c’è ed è esplosa in quel modo, bisogna cercare di capirne le ragioni.
L’area di Roma in cui si è verificato l’incidente non ha attività commerciali di lusso e strade pulite. Molte della famiglie che abitano nelle case popolari di quel quartiere faticano ad arrivare a fine mese.
Prendersela con i rom, accusati sommariamente di rubare i soldi allo stato italiano, è fin troppo facile quando la disoccupazione è alle stelle e permangono ancora forti problemi sociali irrisolti.
A Roma vivono circa otto mila persone d’etnia rom, che rappresentano lo 0,23 per cento dell’intera popolazione. Le situazioni di degrado esistono, negarle e fingere che tutto vada bene non aiuta a fare un discorso costruttivo. Serve però separare i fatti dagli stereotipi.
Non è vero che i rom rubano i bambini, non è vero che ne siamo invasi. In Italia vivono tra le 120 e le 180mila persone d’etnia rom, una delle percentuali più basse in Europa. Non è vero che “possono essere rispediti a casa”: la metà dei rom e sinti ha regolare cittadinanza italiana.
Quelli sui rom sono stereotipi infondati, ma ben radicati. Due anni fa visitai un campo rom in Sardegna, nella provincia di Cagliari. Intervistai Teresa, una giovane ragazza d’etnia rom che alcuni mesi dopo si sarebbe diplomata con il massimo dei voti.
Viveva in una baracca senza acqua corrente, in aperta campagna, vicino una discarica. Rimasi alcune ore a parlare con lei, mentre la madre mi preparava un pane farcito tradizionale.
Teresa mi raccontò che per anni non aveva detto di essere rom ai suoi compagni di classe, per paura degli stereotipi costruiti sulla sua etnia. Quando finalmente ne parlò e chiese alle amiche di andarla a trovare, nessuno accettò l’invito.
Teresa non voleva vivere in un campo. Mi raccontò che sua madre non voleva spostarsi. Quella baracca era stata costruita negli anni, con dedizione e con amore. Era la sua casa.
Teresa sognava di lavorare nel settore della ristorazione. Voleva lasciare il campo rom dove era cresciuta. Come la sorella, sposata con un ragazzo sardo, che lavorava in un campeggio sulla costa.
Teresa è una ragazza modello e non tutti sono come lei. Proprio per questo, è necessario un discorso costruttivo sui possibili interventi nelle periferie delle nostre città.
Teresa è diventata quello che è oggi perché ha potuto studiare, è stata sostenuta e seguita, le sue aspirazioni sono state incoraggiate. Intervenire sui problemi sociali significa investire nel futuro delle persone.
I campi sono una soluzione sbagliata perché sono una forma di ghettizzazione, ma quando si obbligano le persone a spostarsi bisogna accompagnarle nel loro percorso.
È fondamentale pianificare soluzioni invece di imporle dall’alto, con un decreto legge che parla di “sicurezza” anziché di diritti umani. È importante offrire opportunità anche al di fuori del campo, per evitare che il ciclo di povertà e degrado si ripeta.
Le ruspe tanto invocate porterebbero solo a un mucchio di macerie. E dalle macerie non può nascere nulla di buono.
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