È iniziato lo sciopero indetto dalle principali sigle sindacali, Cgil, Cisl, Uil e Ugl, nel centro di distribuzione Amazon di Castel San Giovanni, in provincia di Piacenza.
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La protesta è partita alle prime ore dell’alba di venerdì 24 novembre. Davanti al cancello del magazzino ci sono molti lavoratori che stanno dando corso a una manifestazione pacifica. Amazon assicura che “la maggior parte dei dipendenti è al lavoro, risulta assente solo il 10 per cento”. Ma per la Fisascat Cisl, uno dei sindacati che ha promosso lo sciopero, l’adesione al primo turno già supera il 50 per cento, e sarà totale con l’ultimo turno di lavoro, quello notturno.
“Amazon dichiara il 10, ma sappiamo che in questi casi non c’è mai corrispondenza tra chi fa e chi subisce lo sciopero. Noi pensavamo di raggiungere un 25-30 per cento di adesioni, in realtà siamo molto soddisfatti perché almeno per il primo turno dai nostri osservatori emerge che la partecipazione è più alta del 50 per cento. Vedremo per i successivi”, racconta a TPI Francesca Benedetti, segretaria di Fisascat Cisl Piacenza.
Con lei abbiamo ripercorso le motivazioni che hanno condotto a uno sciopero che rischia di minare la buona immagine che il colosso statunitense ha costruito negli anni.
TPI ha raccolto la testimonianza di una dipendente che non trovava valide motivazioni per questo sciopero. Quali sono invece i racconti e le opinioni dei lavoratori che allo sciopero hanno aderito?
Questa ragazza ha la fortuna di trovarsi bene all’interno di Amazon. Va tenuto conto che non tutte le posizione lavorative si trovano nelle condizioni che noi oggi denunciamo. Tradizionalmente i livelli impiegatizi non soffrono le condizioni vissute in magazzino. Lo sciopero è soprattutto del personale che è in produzione: dallo scarico dei camion, al prelievo e al confezionamento dei prodotti. Qui ci sono le condizioni peggiori.
Questa situazione non la raccontiamo noi per la prima volta, basta guardare cosa si dice di Amazon in Europa e in giro per il mondo. Siamo in un coordinamento europeo, anche il sindacato americano sostiene che quello di Amazon è un modello di organizzazione del lavoro che danneggia la salute delle persone.
Ci può fare qualche esempio?
Quotidianamente forniamo supporto, anche attraverso i medici di patronato e gli psichiatri in convenzione con la Cisl. Registriamo un’incidenza altissima di patologie legate a cause lavorative. È evidente che non si può pensare di stare bene in un posto di lavoro in cui ci si ammala.
Parliamo della giornata lavorativa: come funziona?
Dal momento in cui si timbra, si lavora 7 ore e mezzo. La pausa di mezz’ora dipende dai processi di lavoro, non la si fa tutti nello stesso momento. Parliamo di 7 ore e mezzo di lavoro frenetico: quando stacco dalla mia postazione devo ‘sloggarmi’, ovvero utilizzare i sistemi computerizzati che monitorano i miei movimenti.
Il tempo della pausa pranzo comprende l’uscita dagli archi, dove ci sono i metal detector, e il tragitto per recarmi in mensa, fare la fila, mangiare, andare in bagno, e rientrare qualche minuto prima per fare il breafing (una breve riunione) prima dell’inizio della seconda fase della giornata. Tutto questo in mezz’ora.
Ma cosa della giornata lavorativa ha portato alle lamentele dei dipendenti?
C’è una situazione di stress psicologico e fisico da sovraccarico sull’apparato muscolo-scheletrico e da ritmi ripetitivi. L’azienda chiede dei livelli di produttività che sono spinti agli eccessi e costringe le persone impegnate in produzione a correre. Nel reparto che si chiama “le vasche” ci sono due rulli dove si passano i pacchi, l’operatore in postazione deve prendere un pacco da un rullo e passarlo su un altro. In questo processo il lavoratore è capace, con lo stesso movimento ripetitivo, di smistare tra i 18 e i 20mila pacchi.
Non sono numeri a caso, sono conteggiati dal conta-pacchi: il lavoratore deve tenere questo ritmo dettato dalla macchina, se rallenta si intasa la catena. C’è anche il controllo umano: la persona che lo esegue, anche a distanza, interviene immediatamente sull’operatore.
Cosa chiedete?
Vogliamo garantire a questi lavoratori una continuità all’interno di Amazon, il turn over è molto alto proprio perché le persone non resistono più di tanto in questa azienda. Vorremmo che Amazon creasse al suo interno delle condizioni che tengono conto del fatto che i lavoratori sono esseri umani, non robot. Non è un lavoro che dà grandi soddisfazioni, è alienante.
Chi decide di entrare in Amazon lo fa perché ha bisogno di una retribuzione. Se però oltre a doversi alienare, rischia anche di ammalarsi, diventa un problema.
Nel momento in cui non si riesce a garantire la produttività che loro chiedono cominciano ad arrivare i feedback negativi. Dopo un certo numero di feedback si passa al confronto all’americana, chiamato ‘one to one‘, dove un referente aziendale dà vita a delle vere e proprie pressioni.
Esistono casi particolari?
Molti lavoratori hanno problemi all’apparto muscolo-scheletrico con dorsiti, tendiniti, ernie, problemi ai legamenti, tutto quello che può portare un movimento ripetuto e portato all’eccesso. Di frequente si verificano contestazioni disciplinari per dipendenti colti solo a parlare tra di loro. Non mi riferisco a persone che trascorrono mezz’ora nascoste in bagno, ma a chi ha timbrato il cartellino alle 10.30 e viene contestato se parla mentre percorre il corridoio in direzione della propria postazione. Si tratta di pochi secondi che possono determinare una sanzione nella contestazione disciplinare.
Lo sciopero creerà realmente delle problematiche ad Amazon nella gestione del Black Friday?
Non credo. Penso che lo sciopero abbia creato grosso fastidio e disagio più all’immagine dell’azienda, proprio perché Amazon vive molto sulla buona pubblicità. Oggi abbiamo messo a nudo Amazon, abbiamo mostrato anche in Italia, dopo diversi anni che l’azienda si è insediata qui, che le cose non stanno andando così bene come si vuol far credere.