Ha da poco smesso di piovere quando il furgone bianco guidato da Biagio entra nel campo rom di Cupa Perillo. La strada è asfaltata fino a un certo punto, poi inizia il fango. Dalla distesa di baracche e immondizia sbucano una ventina di bambini. Biagio li conosce tutti, sa chi può salire sul furgone e chi no.
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“Oggi si fa il teatro?”, gli chiedono quelli rimasti a terra. “No, oggi c’è doposcuola. Il teatro inizia a fine mese”. Qualcuno si arrende e se ne va, altri le provano tutte per convincerlo a portarli con lui.
Biagio fa parte di Chi rom e chi no, una delle tante associazioni presenti a Scampia, nella periferia nord di Napoli. Nota per essere il supermarket europeo della droga, oggi Scampia è un quartiere dai mille volti. Uno di questi è il campo rom di Cupa Perillo.
L’insediamento è nato abusivamente più di trent’anni fa. All’inizio ospitava poche decine di abitanti, poi con l’intensificarsi delle crisi jugoslave il numero è cresciuto a dismisura e oggi il campo ospita circa ottocento persone.
Vivono in baracche di legno, lamiera e ferro. Prendono l’energia elettrica illegalmente dall’illuminazione pubblica e sono circondati dall’immondizia proveniente da tutto l’hinterland napoletano.
“La portano qui perché i rom non si ribellano”, spiega a TPI un’operatrice del campo. Per anni è stato così: i rom di Cupa Perillo sono stati marginalizzati e hanno accettato la loro condizione senza mai ribellarsi. Poi qualcosa è iniziato a cambiare.
“Tra poco ci sarà una rivoluzione e i protagonisti saranno loro”, dice Biagio guardando i bambini nel furgone.
Un campo unico nel suo genere
Per comprendere ciò di cui parla Biagio bisogna analizzare le caratteristiche che rendono Cupa Perillo un campo unico nel suo genere: un esempio positivo di inclusione sociale. La storia del campo rom di Scampia è strettamente legata a quella del quartiere che lo ospita.
“Ai tempi della faida di camorra qui non c’era niente, era un quartiere abbandonato a se stesso”, racconta Emma Ferulano, una dei soci fondatori di Chi rom e chi no. Il degrado, la povertà e la marginalizzazione del quartiere portarono alcuni dei suoi abitanti a ribellarsi, ad attivarsi e ad associarsi. Oggi nella sola Scampia esistono circa duecento associazioni di vario genere, molte delle quali si sono scontrate con la realtà di Cupa Perillo.
Un esempio emblematico è proprio quello di Chi rom e chi no (che in napoletano significa “Chi dorme e chi no”).
“Io ed altri amici decidemmo di attivarci, di lavorare intorno all’idea di spazio pubblico”, racconta Emma Ferulano. “L’obiettivo era ribaltare la narrazione territoriale che all’epoca era dominata dallo stereotipo negativo”.
“Una criticità di Scampia era il campo rom, così decidemmo di attivarci in quella direzione”, continua. “Il primo passo fu, nel 2003, la costruzione di una baracca all’interno del campo. Una baracca abusiva in un campo abusivo”.
In quella baracca iniziarono ad organizzare laboratori artistici e doposcuola per i bambini rom, ma l’obiettivo principale era quello di creare un luogo d’incontro tra tutti gli abitanti di Scampia: rom e non.
L’incontro vero, quello che ha cambiato la storia di Cupa Perillo, avvenne in cucina.
“La baracca divenne presto luogo privilegiato per l’organizzazione di eventi che richiamavano nel campo chi non c’era mai stato”, racconta Ferulano. “I napoletani iniziavano a entrare ma con molte diffidenze. Fino a quando non ci venne l’idea di chiedere ad alcune donne, sia rom che napoletane, di cucinare insieme e organizzare dei catering”.
Tra queste c’erano Rosa e Malina, la prima italiana, l’altra rom. “Il primo impatto per me è stato brutto”, dice Rosa a TPI. “Ero piena di pregiudizi e non ero convinta fosse una buona idea cucinare con degli zingari. Poi però mi sono resa conto che erano donne pulite, sistemate e pure simpatiche”. Rosa ride pensando a come siano cambiate le cose in pochi anni.
Oggi lei e Malina sono chef al Chikù, il ristorante italo-rom nato dal sorprendente successo di quell’esperienza. Ma oltre che colleghe, Rosa e Malina oggi sono amiche. “Dentro quella cucina ci diciamo tutti i fatti nostri”, confida Rosa. “E quando qualcuno mi chiede come faccio a cucinare con loro gli rispondo che nemmeno me lo ricordo più che sono rom. Alla fine sono solo persone”.
Malina è una delle prime protagoniste della rivoluzione di Cupa Perillo. Arrivata in Italia quando aveva 7 anni, oggi dice di non aver più sogni da realizzare.
“Quando ero piccola e guardavo mia nonna cucinare sognavo di diventare una cuoca”, racconta con timidezza. “Per anni ho creduto fosse impossibile, soprattutto vivendo in un campo rom, ma poi è successo e non posso essere più felice di così. Ora spero che i miei figli possano trovare un lavoro. Questa è l’unica cosa di cui mi importa”.
La generazione rivoluzionaria
I figli di Malina fanno parte della prima generazione di Cupa Perillo che ha iniziato a ribellarsi alle logiche del campo. Ne è convinto anche padre Raffaele dell’associazione Arrevotammoce, che per dimostrarlo mi racconta la storia di Baich.
“Dopo aver preso la terza media, Baich doveva decidere se iniziare a vivere come i suoi genitori tra lavori saltuari ed elemosina, oppure provare a costruirsi una vita diversa”, racconta padre Raffaele. Oggi Baich ha 22 anni e, dopo aver seguito un corso da pizzaiolo, è stato assunto come aiuto cuoco in un ristorante al centro di Napoli.
“Quella di Baich è solo una delle tante storie di questo tipo. I ragazzi si ribellano, vogliono allontanarsi dal campo. Conoscendo i loro coetanei napoletani le nuove generazioni di Cupa Perillo hanno iniziato a fare il confronto, a mettere in discussione l’idea, purtroppo radicata nei genitori, che nulla per loro possa cambiare”.
Ma qualcosa sta cambiando, anche grazie ai tanti ragazzi rom che, nati e cresciuti a Cupa Perillo, decidono di richiedere la cittadinanza italiana. “Per questa generazione è un’opportunità importantissima per trovare lavoro fuori dal campo”, mi dice Rumiana, unica operatrice di etnia rom di Cupa Perillo.
A 18 anni Rumiana ha deciso di abbandonare gli studi in Bulgaria per non gravare troppo sulle spalle dei genitori e di trasferirsi in Italia. Oggi vive e lavora all’interno del campo nell’ambito del progetto Rsc (rom, sinti, caminati) per il comune di Napoli.
“Il mio compito è quello di occuparmi dell’inserimento dei bambini del campo nella scuola e seguirli lungo tutto il percorso”, dice Rumiana a TPI. Nel suo lavoro si occupa anche di questioni più burocratiche, come le richieste per il riconoscimento della cittadinanza ai neomaggiorenni.
“Non è una cosa semplice: mentre alcune famiglie capiscono le opportunità derivanti dal riconoscimento della cittadinanza italiana ai loro figli, per altre è estremamente difficile convincerli”.
Sarebbe un errore pensare al campo rom di Cupa Perillo come a un insieme compatto. All’interno del campo convivono diverse culture e diverse sono le esigenze dei suoi abitanti.
Girando tra le baracche del campo si sente la storia di una ragazza di 14 anni che fino a pochi giorni prima era in fin di vita per aver ingerito dell’acido muriatico. Alla base del gesto estremo la volontà di sposarsi con un ragazzo la cui famiglia non la accettava. Dicono che la ragazza si è ripresa e la famiglia di lui ha accettato di prenderla con sé in cambio di una dote di 20mila euro.
È contro queste tradizioni che i giovani di Cupa Perillo hanno deciso di ribellarsi. Per la possibilità di scegliere chi sposare, con chi formare una famiglia e magari con chi metter su casa. Una casa vera, fatta di mattoni e cemento.
Ma allo stesso tempo la loro è una lotta contro chi li vorrebbe ancora marginalizzati, ancora reclusi in quella gabbia di legno, lamiere e immondizia che è il campo rom o – peggio ancora – contro chi vede nella ruspa la risposta a ogni problema, senza contestualizzare, senza chiedersi chi vive dentro quelle baracche e perché è finito lì.
Davide ha dieci anni e vive in una baracca di Cupa Perillo con i genitori. A settembre ha iniziato la prima media, ma ha già le idee chiare sul futuro.
“Da grande voglio fare l’attore o l’avvocato”, racconta il bambino. “Fare l’attore è più divertente e più facile, perché bisogna studiare meno. Però l’avvocato aiuta la gente”. Ci pensa un attimo su. “Ma alla fine mi sa che farò l’avvocato”, mi dice guardando a terra.
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