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Crollo ponte a Genova, nel 1979 l’ingegnere Morandi avvertì sul “rischio corrosione”

L'ingegnere che progettò il viadotto aveva parlato di un rischio corrosione a causa della salsedine e dell'inquinamento

Di Anna Ditta
Pubblicato il 19 Ago. 2018 alle 17:56 Aggiornato il 17 Ott. 2018 alle 12:37

Ponte Morandi Genova

Era il 1979 quando l’ingegnere Riccardo Morandi avvertiva la necessità di effettuare manutenzione sul ponte da lui progettato a Genova e crollato il 14 agosto scorso, provocando 43 vittime e decine di feriti.

Morandi lanciava un “allarme corrosione”, a causa della salsedine e dell’inquinamento.

“Penso che prima o poi, e forse già tra pochi anni, sarà necessario ricorrere a un trattamento per la rimozione di ogni traccia di ruggine sui rinforzi esposti, con iniezioni di resine epossidiche dove necessario, per poi coprire tutto con elastomeri ad altissima resistenza chimica”, aveva scritto l’ingegnere in uno studio di quasi 40 anni fa, riportato alla luce dal quotidiano La Verità.

Morandi avanzava queste perplessità in una relazione intitolata “Il comportamento a lungo termine dei viadotti sottoposti a traffico pesante situati in ambiente aggressivo: il viadotto sul Polcevera, a Genova”.

Ma oggi al centro dell’inchiesta della procura di Genova per stabilire le cause del crollo ci sono soprattutto i tiranti del ponte, le colonne trasversali di cemento armato con l’anima di cavi d’acciaio, che costituiscono proprio un’innovazione introdotta da Morandi.

I dubbi avanzati dall’ingegnere nel 1979, invece, riguardavano la corrosione dei materiali di costruzione del viadotto.

“La struttura viene aggredita dai venti marini (il mare dista un chilometro) che sono canalizzati nella valle attraversata dal viadotto”, scriveva all’epoca, “si crea così un’atmosfera, ad alta salinità che per di più, sulla sua strada prima di raggiungere la struttura, si mescola con i fumi dei camini dell’acciaieria (il vecchio stabilimento Ilva, ndr) e si satura di vapori altamente nocivi”.

“Le superfici esterne delle strutture ma soprattutto quelle esposte verso il mare e quindi più direttamente attaccate dai fumi acidi dei camini, iniziano a mostrare fenomeni di aggressione di origine chimica”, ammetteva Morandi, rilevando una “perdita di resistenza superficiale del calcestruzzo”.

L’ingegnere accennava anche a non meglio definite “piastre” che “sono state letteralmente corrose in poco più di cinque anni”, quindi nel 1972, e “hanno dovuto essere sostituite, con processi piuttosto complicati, con elementi in acciaio inox”.

Morandi suggeriva di proteggere “la superficie in calcestruzzo, per accrescerne la resistenza chimica e meccanica all’abrasione” con l’impiego di resine e di elastomeri sintetici.

Leggi anche: Perché il ponte Morandi è crollato: le cause
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