In quasi dieci anni di vita, il Partito democratico ha dovuto attraversare diversi momenti complessi, come quello che sta vivendo negli ultimi mesi e che potrebbe arrivare a breve a una conclusione, in maniera non del tutto pacifica. Una questione iniziata durante la campagna per il referendum costituzionale, che ruota intorno alla leadership di Matteo Renzi all’interno del partito.
La bocciatura della riforma costituzionale
Le prime spaccature sono arrivate in vista del referendum costituzionale del 4 dicembre 2016, sulla riforma voluta dal segretario del Pd – e all’epoca presidente del Consiglio – Matteo Renzi e votata in parlamento da tutto il partito. Su questo diversi esponenti della minoranza del partito, legati all’area più a sinistra, avevano sollevato la questione del cosiddetto “combinato disposto” tra la fine del bicameralismo paritario della riforma costituzionale e la nuova legge elettorale, l’Italicum, che avrebbe potuto favorire una deriva autoritaria.
Renzi decise di rassicurare gli esponenti della minoranza promettendo alcune modifiche all’Italicum qualora avesse vinto il Sì. A queste parole, mentre Gianni Cuperlo decise di schierarsi sulla linea del segretario, l’ex capogruppo alla camera Roberto Speranza e l’ex segretario Pierluigi Bersani decisero di schierarsi ugualmente in favore del No, unendosi all’ex premier Massimo D’Alema, già schierato su questa posizione, e al presidente della regione Puglia Michele Emiliano.
Il 4 dicembre 2016 la riforma costituzionale Renzi-Boschi è stata bocciata da quasi il 60 per cento dei voti, portando l’allora premier Renzi alle dimissioni, come aveva annunciato durante la campagna elettorale.
Le prime richieste di un congresso
Mentre nei giorni successivi al voto referendario Paolo Gentiloni subentrava a Renzi come primo ministro, nel Pd iniziavano ad arrivare le prime richieste di un congresso, con l’incognita di possibili elezioni politiche dietro l’angolo che avrebbero potuto far scalare l’appuntamento.
Pur senza una data precisa per il congresso, Roberto Speranza e Michele Emiliano annunciarono le proprie candidature con Renzi per la leadership del Pd, aggiungendosi al presidente della regione Toscana Enrico Rossi che aveva annunciato da mesi di essere nella partita. Tuttavia, in assenza di una decisione precisa sui modi e i tempi di un appuntamento congressuale, i tre candidati alternativi hanno iniziato a manifestare i propri malumori verso Renzi, arrivando a minacciare una scissione.
A fare da padre nobile a questo movimento scissionista è senza dubbio Massimo D’Alema, che nel gennaio 2017 ha lanciato il suo movimento Consenso, con l’obiettivo di costruire un centrosinistra alternativo a quello di Renzi. Il tutto mentre a sinistra del Pd hanno luogo nuovi cambiamenti politici tra i soggetti con cui gli scissionisti vorrebbero dialogare.
Gran parte di Sinistra Ecologia e Libertà (Sel) si unisce con il gruppo Futuro a Sinistra, fondato nel 2015 da Stefano Fassina, fondando Sinistra Italiana. Altri esponenti della sinistra, guidati da Giuliano Pisapia, lanciano Campo Progressista, soggetto interessato al dialogo con i democratici.
Iniziano quindi a circolare i primi sondaggi su un nuovo soggetto politico composto da Massimo D’Alema, Bersani, Speranza, Rossi, Emiliano e Sinistra Italiana che, stando alle rilevazioni, in quel momento avrebbe potuto raggiungere tra l’8 e il 12 per cento.
L’assemblea nazionale Pd del 19 febbraio
Il 13 febbraio, Renzi ha annunciato di voler rimettere il proprio mandato e convocare un congresso con successive primarie. Il passaggio, tuttavia, non soddisfa la minoranza che il 18 febbraio si riunisce in un’iniziativa al Teatro Vittoria di Roma in cui Rossi, Emiliano e Speranza si dicono non disposti a partecipare al congresso, convocato da Renzi in tempi eccessivamente stretti e ridotto esclusivamente a una conta tra tessere.
Tuttavia, il giorno seguente, durante l’assemblea nazionale del Pd in cui viene ratificata la proposta di svolgere un congresso in primavera, Michele Emiliano fa retromarcia e annuncia di riconoscere la leadership di Renzi e non voler lasciare, mentre l’ex premier lascia ufficialmente la guida del partito in vista del congresso.
Nella stessa assemblea, dopo essere stato per molto tempo distaccato dalle attività di partito, parla anche Walter Veltroni, primo segretario del Pd, prendendo le difese di Renzi e criticando una possibile scissione. Lo stesso fa Piero Fassino, ultimo segretario dei Ds ed ex sindaco di Torino. Una presa di posizione netta da due della vecchia guardia ma anche un possibile cambio di strategia di Renzi che si affida a due esponenti storici anziché ai giovani rottamatori e ai suoi fedelissimi del cosiddetto “giglio magico”.
Lo stesso Emiliano, alcuni giorni dopo, pur criticando la gestione del partito da parte di Renzi, annuncia di rimanere nel Pd e si candida alla guida del partito in vista del congresso. Diversamente, gli altri scissionisti sembrano destinati a lasciare. Enrico Rossi dichiara negli stessi giorni di aver restituito la propria tessera del Pd, così come Bersani annuncia di non rinnovare la tessera e non partecipare al congresso e Speranza si dice intenzionato a costruire altrove un nuovo percorso.
Le possibili scissioni nel Pd
Secondo quanto riportato da Repubblica, a seguire gli scissionisti potrebbero esserci circa 27 parlamentari, tra cui spiccano l’ex segretario del PD ed ex leader Cgil Guglielmo Epifani, l’ex responsabile organizzazione del Pd Nico Stumpo e lo storico Miguel Gotor. Fuori dalle fila parlamentari, si è aggiunto a loro anche l’ex presidente dell’Emilia-Romagna, Vasco Errani.
Al momento, dunque, la scissione sembra essere ben meno consistente di come potesse sembrare in un primo momento, quando sembrava potesse portar via dal Pd una consistente parte degli ex Ds e costituire un’alternativa molto consistente a sinistra di Renzi. Tuttavia, è ancora presto per poter tirare le somme, dal momento che la situazione è attualmente in divenire e finora ha riservato non poche sorprese.
La vera differenza però di questa scissione con molte altre avvenute in passato, è che non si trova una forte ragione dettata da ragioni storiche o di cambiamento del sistema politico. Se vediamo, le grandi scissioni della sinistra italiana nascono da un atteggiamento di alcune correnti politiche verso l’Urss e verso i cambiamenti della storia, così come quelle della Dd rappresentano la frammentazione di un partito al termine di una stagione politica decennale.
In questa ipotetica scissione, fattori di questo tipo sembrano non vedersene, e sembra più un divorzio successivo ad anni di dissidi interni senza alcuna volontà da parte di nessuna delle fazioni in lotta di voler realmente trovare una mediazione.
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