Il 28 febbraio 2018, a Cisterna di Latina, l’appuntato dei carabinieri Luigi Capasso si è tolto la vita facendo fuoco con la sua arma d’ordinanza, dopo aver ferito la moglie e ucciso a colpi di pistola le due figlie di 7 e 13 anni, con le quali era rimasto barricato in casa per ore.
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L’efferata strage familiare sembra essere stata scatenata dalla separazione tra l’assassino e la moglie Antonietta Gargiulo, attualmente ricoverata all’Ospedale San Camillo di Roma in attesa di essere operata per via dei colpi subiti alla mandibola, alla scapola e all’addome.
L’uomo non aveva infatti accettato che Antonietta avesse tentato di sottrarsi alle sue violenze, allontanandogli le bambine, le quali, secondo le dichiarazioni di Maria Concetta Belli, avvocata della vittima, erano terrorizzate dal padre.
“La situazione tra la coppia era tesa e si era aggravata quando a settembre lui aveva aggredito la moglie davanti alla fabbrica della Findus, suo luogo di lavoro, occasione in cui dovettero intervenire i colleghi di lei per difenderla. In altre occasioni, l’uomo l’aveva aggredita anche a casa davanti alle bambine”, spiega Belli.
Dopo l’episodio, Antonietta aveva deciso di chiedere aiuto, presentando in questura un esposto nel quale raccontava i fatti, e il suo timore per l’incolumità della sua famiglia.
Da quel momento Capasso ha cominciato a pedinarla ed appostarsi sotto la casa dalla quale si era allontanato, spostandosi a vivere nelle stanze messe a disposizione dalla caserma.
“Cercava di incontrarla, ma lei, anche su mio consiglio, ha sempre rifiutato tutti gli incontro. Anche quando lui ha svuotato il conto corrente comune e disse che le avrebbe dato i soldi se acconsentiva ad incontrarlo. Mai avvenuto. È sempre stata attentissima, molto prudente” racconta l’avvocata Belli.
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È una storia che, tragicamente, non è unica nel suo genere, e proprio per questo non può lasciare indifferenti. Nel 2016 sono stati ben 120 i casi di femminicidio avvenuti in Italia, a cui si affiancano gli innumerevoli casi di violenza domestica, nei quali otto volte su dieci il contesto e la paura portano la vittima a non denunciare l’accaduto.
Il dovere di fermare l’orrore naturalmente non sta alla donna ma al violento, o alle autorità. Se l’aggressività è una condizione istintiva, infatti, la violenza è il frutto di una scelta consapevole, un comportamento appreso che viene applicato al fine di dominare o controllare la vittima.
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I soggetti che si rendano conto di mettere in atto comportamenti violenti possono intraprendere un percorso di dialogo con un professionista per evitare che l’istinto degeneri in violenza, o contattando uno psicologo o un Centro di ascolto per uomini maltrattanti.
In mancanza di un intervento esterno, però, ci sono comunque alcune vie che le vittime stesse possono percorre per riuscire a difendersi ed autotutelarsi.
Ecco cosa si può fare:
- Riconoscere la violenza. Il primo, fondamentale passo per uscire dalla situazione è capire che si sta subendo una violenza, e riconoscerne i sintomi. Secondo i dati ISTAT, infatti, solo un terzo delle donne italiane vittime di violenza è consapevole del fatto l’uomo che le picchia sta commettendo un reato. Inoltre le violenze verbali e psicologiche vengono spesso sottovalutate, e non riconosciute quali atteggiamenti persecutori, isolanti e colpevolizzanti.
Per ovviare a questo problema esistono alcuni strumenti, come ad esempio questo test di autovalutazione del rischio ideato dal Cesvis (Centro studi vittime SARA) per permettere alle vittime di violenza di prendere coscienza della loro situazione.
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- Contattare un centro antiviolenza. Una volta riconosciuta la situazione è essenziale chiedere aiuto, e parlare con persone formate e preparate sul tema, che possano indirizzare la vittima verso un percorso idoneo. Telefonando al numero nazionale anti violenza e stalking, il numero verde 1522, si può ottenere assistenza da parte di personale esperto, ed essere indirizzati verso il centro più vicino.
- Separarsi. Molto spesso le vittime di violenza desiderano una separazione ma non riescono a richiederla per paura di ulteriori minacce e violenze. Per questo motivo esistono le case rifugio, strutture predisposte dai centri antiviolenza che ospitano le donne che desiderino allontanarsi da una situazione pericolosa.
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- Portare via i figli. Se sono presenti dei bambini, anche loro saranno inevitabilmente coinvolti dal clima di violenza, in modo più o meno diretto. Per allontanarli dal genitore violento, la vittima non dovrà necessariamente denunciarlo, essendo sufficiente una “dichiarazione di allontanamento” per tutelarsi dall’accusa di sottrazione di minore.
- Presentare un esposto. L’esposto è un atto con il quale si informa l’autorità di pubblica sicurezza di una situazione problematica, chiedendo di intervenire in una lite tra privati affinché questa non degeneri in un reato. Non si tratta di una denuncia vera e propria, non essendo specificato il provvedimento che si vuole ottenere l’autorità, alla quale viene invece chiesto di valutare come sia più opportuno agire.
- Richiedere un ammonimento. Nei casi di stalking, se la vittima non vuole querelare l’aggressore, temendo di esporsi troppo con una denuncia diretta, può richiedere al questore di ammonirlo affinché questi non ponga più in essere comportamenti lesivi della sua libertà, salute o equilibrio psico-fisico.
La misura è un avvertimento al colpevole, che viene diffidato dal tenere il comportamento contrario alla legge, ed in un primo momento evita un processo penale all’aggressore e l’esposizione della vittima. L’ammonimento può inoltre comportare la sospensione dell’autorizzazione per la detenzione di armi o limiti nel concederne la licenza, un aumento della pena in caso di condanna per stalking e, soprattutto, la procedibilità d’ufficio per il reato, ossia la possibilità per le autorità di intervenire direttamente contro il colpevole che perseveri nel comportamento criminale, senza bisogno di denunce. - Querelare il violento. La misura più forte è sicuramente la querela, con la quale chi ha subito un reato non perseguibile d’ufficio denuncia la situazione e chiede che si punisca il colpevole. Questa va presentata entro tre mesi dal giorno in cui si ha notizia del fatto che costituisce reato, e permette all’autorità di emettere provvedimenti utili alla protezione della vittima.
Cosa doveva andare diversamente nella vicenda di Cisterna di Latina
Esaminando le informazioni disponibili si può ipotizzare che qualcosa sia andato storto nella storia di Antonietta Gargiulo. La donna aveva infatti percorso numerose delle vie indicate, riuscendo a riconoscere la violenza, chiedere aiuto e separarsi dal compagno.
Era anche arrivata a chiedere ai servizi sociali di impedirgli di vedere le figlie, terrorizzate, e a parlare direttamente con il comandante di suo marito per esporgli i suoi timori.
Il 26 gennaio, quando venne chiamata in commissariato per rispondere ad un esposto che lui aveva presentato contro di lei, lamentando il fatto che lei non gli permettesse di accedere alla casa, aveva dichiarato: “Ho ancora paura di mio marito per il suo carattere violento e aggressivo e gli farò recapitare i suoi effetti personali. Sino alla data della prima udienza voglio che stia lontano da me e dalle nostre figlie e la smetta di inviarmi messaggi e telefonarmi in continuazione”.
Ma nessuno ha fatto niente, e nell’ultima visita psicoattitudinale a cui si sottopone viene dichiarato idoneo alla professione, consentendogli in questo modo di tenere la pistola d’ordinanza.
Secondo Teresa Manente, avvocata dello studio Teresa Manente & Associate specializzata sulla violenza contro le donne e responsabile dell’Ufficio Legale dell’associazione Differenza Donna, le autorità avrebbero potuto e dovuto procedere d’ufficio contro Capasso.
Come ha spiegato a TPI, “In questo caso si poteva intervenire d’ufficio, perché l’esposto rendeva noto un reato perpetrato nei confronti dei minori. Nei casi di stalking infatti si può intervenire d’ufficio se riguarda minori o se collegato ad un altro reato procedibile d’ufficio, come erano in questo caso le minacce di morte ricevute dalla donna.
Era necessario avviare l’azione, si poteva e si doveva fare. Questa donna aveva manifestato la volontà di chiedere aiuto, e l’ha fatto con l’esposto. C’è stata una gravissima sottovalutazione del pericolo che lei aveva però manifestato, si tratta di omertà culturale. Le leggi ci sono, manca la volontà di lottare contro questo fenomeno, perché lottare a favore della libertà delle donne fa paura”.
Il fatto che siano le autorità ad agire direttamente contro il violento, attraverso ammonimento o provvedimenti d’ufficio, costituisce secondo l’avvocata Manente una forma di protezione nei confronti della vittima.
“Se il provvedimento di allontanamento lo prende l’autorità, senza una richiesta esplicita della donna, lei è più protetta, perché non è lei ad averlo fatto partire, e inoltre l’azione avrà per l’uomo molto più impatto, trovandosi di fronte a qualcun altro che gli dice “quello che stai facendo è sbagliato”. Inoltre in questo modo l’allontanamento non è causato dalla donna, e si rischiano meno ripercussioni su di lei”.
Nella maggior parte dei casi, infatti, le donne desiderano denunciare ma hanno paura di farlo. Un timore d’altronde supportato dai dati, dal momento che dopo la denuncia il rischio di femminicidio aumenta esponenzialmente.