Le più importanti campagne elettorali degli ultimi anni, da quella del 2016 negli Stati Uniti che ha portato Trump alla Casa Bianca a quella tutta nostrana del 4 marzo, hanno incoronato, su tutti, un vincitore. È il web come nuovo strumento di comunicazione politica, con le sue nuove regole ma anche i pericoli di fare politica a colpi di tweet e post.
Per capire come siamo stati traghettati dalla politica fredda e posata della Democrazia Cristiana a quella 2.0 di un governo gialloverde i cui commenti più controversi infiammano il web abbiamo parlato con il professor Edoardo Novelli, professore di Comunicazione politica, Sociologia dei media e Sistemi dell’informazione e del giornalismo all’Università degli Studi RomaTre.
La televisione è ancora rilevante o è stata fagocitata dal web?
La televisione è ancora lo strumento principale che influisce sull’opinione pubblica, i telegiornali sono ancora molto seguiti e la televisione ha un ruolo importante anche per rilanciare i temi del web e della rete.
Di per sé la rete è importante, in quest’ultima campagna elettorale in Italia si è segnata una svolta. Nel senso che tutte le ultime campagne elettorali, chiamiamole “della Seconda Repubblica”, erano state dominate dalla televisione, tutti i grandi eventi erano successi in televisione, dal faccia al faccia Occhetto-Berlusconi al famoso scontro del 2013 tra Santoro e Berlusconi.
Questa volta non è stato così: la televisione è calata da questa funzione di “agenda pubblica”. La televisione ha avuto senza dubbio un ruolo minore. La famosa inchiesta delle Iene sui finti rimborsi di alcuni membri dei Cinque Stelle guarda caso è stato uno scoop che è sta trasmesso in rete e non in televisione.
Poi c’è la famosa inchiesta di FanPage sui rifiuti tossici in Campania. È stata un’inchiesta giornalistica che però non è passata attraverso la televisione, è passata attraverso la rete. C’è stato sicuramente un connubio. Però la televisione è ancora lo strumento principale.
Un messaggio come quello di Salvini o del Movimento Cinque Stelle in Italia, ma anche di Trump e degli altri leader populisti, avrebbe senso e funzionerebbe senza Internet o è principalmente legato alla diffusione dell’accesso al web?
Non è che il populismo e i movimenti popolari li ha inventati Internet. Diciamo che il populismo si adatta e usa gli strumenti che trova a disposizione.
Alcuni strumenti sono più mediati e spingono verso un tipo di comunicazione più fredda, razionale e distante. Altri sono estremamente più veloci e impongono delle modifiche al messaggio secondo le loro caratteristiche.
L’arrivo della televisione fin dalla metà degli anni Settanta e tutti gli anni Ottanta ha completamente ridisegnato i modelli, le forme, i linguaggi della comunicazione politica e lo stesso concetto di leadership.
Ora si è passati a una situazione in cui a fianco della televisione comincia ad avere un ruolo Internet. Questo non tanto per il ruolo in se stesso ma per la eco che riescono ad avere sui giornali. Quello che succede in rete ha poi un’eco incredibile nel mondo dell’informazione, e quindi sicuramente ha un ruolo.
Il populismo che ha un messaggio breve, diretto, evocativo, giocato sull’emozione, sull’appello diretto e poco mediato, poco freddo, che gioca a suscitare la “hate and love politics” (la politica delle emozioni), trova nella rete una funzione determinante.
Qual è la responsabilità del giornalismo rispetto a questo?
La responsabilità del giornalismo sarebbe quella di non correre dietro a tutto quello che sa di nuovo, di eclatante, di moda, e di avere una maggiore freddezza e capacità di analisi.
Che oggi ci sia l’idea di un attacco al presidente della Repubblica perché in una notte sono stati creati 400 account su Twitter lo trovo francamente ridicolo. Se questi 400 account sono stati creati dall’estero, allora è chiaro quel tipo di intromissione, ma se 400 italiani o lo stesso hanno creato 400 account per dire “Mattarella, vergogna!” o “Mattarella dimettiti”, no.
Sono andato a vedermi i giornali di quei giorni e La Repubblica, La Stampa erano lì che dicevano quante firme aveva raccolto la petizione online “Grazie Mattarella”, “Viva Mattarella”, “Mattarella resisti”… Francamente bisognerebbe avere un po’ più di freddezza, si parla di squadrismo online per 400 account? Mi sembra un po’ ridicolo.
Allora chi sono i personaggi italiani che stanno avendo più successo dal punto di vista della comunicazione politica?
Certo, se questo è il nuovo registro della comunicazione e questi sono i nuovi canoni della comunicazione, è ovvio che saranno personaggi come Salvini, Grillo, Di Maio ma anche lo stesso Renzi.
Negli anni Cinquanta, i militanti della Dc, del Partito comunista o del Partito socialista non è che avessero un quotidiano rapporto con Togliatti, con De Gasperi o con Nenni. Cioè, non sapevano neanche chi fossero: li vedevano se andava bene una volta ogni qualche anno in una piazza per un comizio durante la campagna elettorale. Ma era un rapporto molto più distaccato e molto più mediato.
Ora chi funziona? Il leader che è capace di comunicare. Che ha molto impatto, molta velocità. Adesso abbiamo dei leader che devono mettersi a nudo in maniera un po’ sorprendente.
Ora vediamo su Facebook o Instagram Salvini che si fotografa con la fidanzata, mentre fa la grigliata, sulla spiaggia… Si fotografa anche in certe immagini che secondo una vecchia ottica potrebbero sembrare delegittimanti.
Quando vedi Salvini con la corona di carta che gli ha fatto la figlia per il suo compleanno e che posta la foto con la corona in testa facendo un selfie da vicino che lo deforma anche un po’, è tutt’altro che un’immagine autorevole come quella di una volta. Togliatti o De Gasperi non si sarebbero mai fotografati così, ma neanche lo stesso Berlusconi, neanche Veltroni.
Perché la televisione porta al primo piano. I leader degli anni Ottanta e Novanta dovevano essere un po’ dei leader star. Dovevano essere belli, sorridenti, abbronzati: dei cosiddetti leader di fascino. È il modello a cui mira Berlusconi, con questa empatia, questo essere vicini, i ritratti in primo piano.
Oggi il leader non ha più quei codici lì, quindi cambia. Ma non è che tutti devono essere Salvini o Di Maio.
Abbiamo avuto l’esperienza di un leader come Gentiloni: è un leader che comunica poco, low profile, che sicuramente non è uno scoppiettante ma ha funzionato molto, forse perché veniva dopo Renzi e ha marcato uno stacco. Eppure ha ottenuto un grande consenso: ha fatto un uso dei media cauto ma funzionante.
Quindi oggi che caratteristiche dovrebbe avere un leader per funzionare?
Beh, innanzitutto dovrebbe avere un progetto politico. Deve avere una capacità di visione e una capacità di lettura, ma questo non è un problema del leader politico ma della politica in generale.
Oggi è molto più difficile perché non abbiamo idee così estreme, così si carica il leader di richieste di capacità e competenze proprie, quasi a supplire la mancanza di una visione. All’interno di questo quadro molto più omogeneo, il leader fa la differenza.
I partiti finiscono per l’essere partiti personali, come Forza Italia.
Quindi serve una linea politica, ma il problema è che manca tutto il resto: manca un contatto reale con l’opinione pubblica, dei momenti di confronto, una politica presente sul territorio, e si supplisce con queste cose. I tweet e i post di Salvini ogni mattina raggiungono direttamente la tasca di 6 milioni di persone.
È una comunicazione di una potenza eccezionale ma dev’essere per forza rapida, veloce, poco problematica, chiama a un tifo, a una partecipazione diretta. È venuta completamente meno una funziona di indirizzo e guida dell’opinione pubblica ma è esaltata la capacità del leader di assecondare e interpretare l’opinione pubblica.
Io sono come te perché mi metto il cappellino di carta, perché mi faccio la foto mentre sono in bicicletta, perché faccio le vacanze come te e interpreto tutto come te, e quindi dico esattamente le stesse cose. La distanza tra la leadership politica e l’elettorato viene profondamente schiacciata.
Perché oggi sembra che i partiti siano sempre in campagna elettorale?
Perché non ci sono più le funzioni che una volta svolgevano i partiti politici.
La campagna elettorale e la comunicazione era una delle tante funzioni che fungevano i partiti. Avevano anche la funzione di formare il proprio personale politico, di svolgere una funzione pedagogica ed educativa, c’erano le scuole di partito per formare i propri quadri. E poi c’era una funzione sul territorio, di contatto diretto e quotidiano. Era un tessuto molto molto stretto. Oggi questa funzione non c’è, l’attività si è ridotta.
Prima, quando c’era la campagna elettorale, tutte le altre attività venivano un po’ congelate e tutte le forze convergevano verso la campagna elettorale. Ma la campagna durava quaranta giorni, poi si tornava a fare la vita politica.
Oggi i partiti non hanno più la possibilità di incontrarci o non ci esponiamo più noi a un contatto diretto con la politica e coi suoi rappresentanti nei territori perché non riconosciamo più alla politica quella funzione educativa e pedagogica o d’indirizzo.
La politica come ci raggiunge? Solo con la comunicazione. Quindi devono stare in uno stato di eccitazione permanente, la famosa “campagna elettorale permanente”. Devono sempre tenere alto il consenso.
Non è perché pensano che si tornerà a votare domani: è che la politica ormai funziona così. I politici di oggi sanno bene che vota sempre meno gente. I politici sanno che c’è una velocità nel cambiamento nel voto.
Una volta il voto era una cosa che ti seguiva dalla culla alla bara, una scelta di vita. Era incomprensibile che uno passasse dal votare Partito comunista alla Democrazia Cristiana. Al massimo si spostava marginalmente e votava socialista.
Oggi i salti sono totali, e loro sanno bene che il consenso è volubile, che il voto è mobile. Tutto quello che stanno facendo lo stanno facendo per mantenere un consenso e dare una risposta a breve, perché sennò sanno che ci sarà un calo.
Quindi la politica ha fallito? Perché la gente non ci crede più?
Prima della fine della Guerra Fredda e della Prima Repubblica in Italia tu sapevi che scegliere un partito voleva dire delegare a lui, all’ideologia la scelta di far parte di un processo collettivo. La tua vita, il tuo futuro e la tua realizzazione non era un processo individuale ma faceva parte di un processo collettivo.
A partire dagli anni Ottanta abbiamo l’individualismo, il ritorno al privato. Non si pensa più che se voti Salvini o se voti Renzi la tua vita avrà un totale cambiamento di prospettiva. Spesso voti quello che ti sembra darti di più o meno, o spesso voti contro, non a favore. Renzi è stato un evidente esempio di questo.
Cosa sfugge secondo lei ai “non addetti ai lavori della comunicazione” delle scelte che fanno i politici nella propria comunicazione?
Credo che la gente sappia che c’è una strategia, è chiaro che c’è uno staff dietro che gestisce tutto quanto.
Quello che non ricordiamo è che quando siamo su Internet ci dimentichiamo che quello non è l’universo, ma un microcosmo molto molto selezionato. Se c’è sotto un post di chiunque, anche 200 nazisti che inneggiano al neonazismo, uno li legge e rimane allibito, ma sono solo 200 neonazisti. In effetti fa impressione.
Bisognerebbe rendersi conto del fatto che un leader politico si rende responsabile di innescare e sdoganare determinati comportamenti. Un leader politico dovrebbe pensare di avere una responsabilità pubblica. Ancora di più se sei ministro dell’Interno. Forse dovresti porti il problema di non istigare, anche se sono atteggiamenti minoritari.
Spesso nei commenti sotto i post di Salvini ci sono commenti ancora peggiori di quello che ha detto lui. Il problema è tenere presente che è solo un microcosmo: quelli che commentano sono solo una parte di una parte di una parte. L’errore è scambiare la rete come l’universo.
Ci sono milioni di persone che non ci sono, non si interessano, non si ingaggiano in queste battaglie. È a loro che bisogna riuscire a parlare, sono loro che bisogna coinvolgere. Certo, sono sempre meno interessate perché quando vedo un post e noto una guerra del fango del genere, me ne tengo ben lontano.