A Roma il 26 giugno un cittadino italiano originario del Bangladesh è stato picchiato da quattro ragazzi perché era andato a vedere la casa popolare assegnatagli dal comune nel quartiere di Tor Bella Monaca.
L’aggressione a sfondo razziale, compiuta al grido di “vattene, qui non c’è posto per te”, non è un caso isolato. Nel dicembre 2016, nel quartiere di San Basilio, i residenti si rivoltarono contro un’assegnazione simile a una famiglia marocchina, urlando alla Polizia Municipale: “Non vogliamo negri né stranieri qui ma soltanto italiani”.
I due episodi sono avvenuti in periferie in cui sono ammassate decine di migliaia di persone che in gran parte non si frequentano. I parchi e le piazze non sono luoghi di socialità ma parcheggi per automobili, giovani e anziani. In questa realtà diventa facile concentrarsi in piccoli gruppi e inveire contro chi non dovrebbe vivere qui.
In tante città europee l’alienazione della periferia scatena la rabbia delle popolazioni, spesso condita da manifestazioni di violenza xenofoba. In questo senso Roma è l’unica capitale che per andare avanti deve tornare indietro. Duemila anni fa infatti, l’Urbe era un centro multietnico con quartieri ebraici, egizi, greci, persino indiani e in cui le diverse comunità coesistevano a fatica, proprio come oggi.
Questa incapacità di convivenza è figlia dell’idea che diritti fondamentali come la casa e la sicurezza personale siano beni scarsi, riservati prima di tutto agli italiani. Ma agli aggressori di Tor Bella Monaca non interessava che la vittima avesse vissuto in Italia per 26 anni e che avesse anche acquisito la cittadinanza, era invece una questione di pelle. Non ha importanza cosa dicano i documenti, in certi ambienti, quell’uomo resterà sempre un bangladese.
È il suo colore e le tradizioni ereditate da quella comunità a renderlo un estraneo e questa identità non scelta deve avere la priorità su ogni altra considerazione legata magari alla professione, alla classe sociale o alla cittadinanza.
Il razzismo poggia sull’illusione che esista un’identità unica e che essa sia un fenomeno statico, laddove invece, come afferma il premio Nobel per l’economia Amartya Sen, si tratta di una dinamica che attiene a precise scelte personali. Ciascuno di noi ha la possibilità di scegliere il peso da attribuire alle varie collettività cui appartiene e definirsi diversamente per fede calcistica, politica, nazionalità, genere o magari reddito.
Ma il branco, esattamente come il concetto della massa nella definizione data dal premio Nobel Elias Canetti, nasce da un’esigenza di sicurezza personale e finisce col dare vita a un corpo unico in cui l’individuo che vi è racchiuso si sente al sicuro, barattando la propria razionalità con la protezione offerta dall’appartenenza al gruppo.
Fu lo psicologo britannico Henri Tajfel a mostrare come la discriminazione derivi dal bisogno di valorizzare la propria identità sociale ed è questo fenomeno ad alimentare la caccia al diverso nelle nostre periferie, non solo contro immigrati, rifugiati o nuovi cittadini ma anche nella violenza politica o contro la comunità LGBT.
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Come combattere allora contro la natura stessa dell’uomo? La soluzione offerta dal comune di Roma di trasferire la famiglia marocchina e di offrire una casa in un altro quartiere alla vittima di Tor Bella Monaca non può essere decisiva.
Il campo di battaglia deve essere la non negoziabilità dei diritti fondamentali di ogni essere umano. L’idea che riconoscere il diritto di un individuo o di una categoria possa danneggiare qualcun altro non deve avere cittadinanza in un sistema pienamente democratico. È infatti proprio la de-costituzionalizzazione delle moderne democrazie, come la definì il sociologo Luciano Gallino, la causa della commercializzazione dei diritti e quindi dell’acuirsi del conflitto sociale.
Eppure, se le persone possono maturare, la folla resterà sempre minorenne e purtroppo tanti demagoghi sono pronti a soffiare sul fuoco delle diffidenze tra le comunità per meri scopi elettorali. Come scriveva il teologo tedesco Dietrich Bonhoeffer infatti, la potenza dell’uno richiede la stupidità degli altri.
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