“Ci sono aspetti positivi nella riforma, ma ora bisogna renderla operativa. Una riforma che rimane sulla carta ferisce le speranze di giustizia non meno di una riforma mancata”. Don Luigi Ciotti, fondatore dell’associazione Libera, che promuove l’uso sociale dei beni confiscati alle mafie, commenta con TPI gli aspetti positivi del codice antimafia, che ha modificato anche la disciplina per la gestione dei beni confiscati.
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Don Ciotti lancia un appello per approvare la legge sui testimoni di giustizia, ancora ferma al Senato, e mette in luce due aspetti critici nell’iniziativa dei giudici calabresi che allontanano i figli dei mafiosi dal nucleo familiare per lottare contro la ‘ndrangheta.
Don Ciotti, il parlamento italiano ha approvato da poco la riforma sulla gestione dei beni confiscati alla criminalità organizzata. Si tratta secondo lei di un passo avanti? I cambiamenti previsti sono positivi o negativi? Come cambierà, se cambierà, l’attività di Libera?
La riforma, inclusa nel quadro del nuovo codice antimafia, presenta diversi aspetti senz’altro positivi. Penso ad esempio alle misure che rendono più forte e efficiente l’Agenzia nazionale per i beni confiscati, a quelle che disciplinano la nomina degli amministratori giudiziari per evitare casi di mala gestione come quello accaduto a Palermo, o ancora a quelle che mettono a disposizione strumenti finanziari per gestire e valorizzare le imprese sequestrate.
Si tratta ora di renderle concretamente operative, perché una riforma che resta sulla carta ferisce le speranze di giustizia non meno di una riforma mancata. L’attività di Libera in sostanza non cambierà, coerente agli scopi che la portarono, ventidue anni fa, a raccogliere un milione di firme per l’approvazione della legge. L’uso sociale dei beni confiscati è uno strumento fondamentale non solo per le lotta alle mafie, ma per il cambiamento sociale, culturale e economico del Paese. Libera continuerà a promuovere e a sostenere tutte le realtà – attualmente sono oltre 650 tra associazioni, gruppi, cooperative, parrocchie – impegnate in questo difficile ma essenziale cammino.
Lo scorso 26 luglio abbiamo ricordato i 25 anni dalla scomparsa di Rita Atria. Ma la legge per la protezione dei testimoni di giustizia è ancora in esame in parlamento. Come fa lo Stato a chiedere di testimoniare se poi non riesce a proteggere chi lo fa e ad assicurargli una vita dignitosa?
Proprio nei giorni scorsi, insieme ad altre associazioni, abbiamo lanciato un appello perché il Senato discuta e approvi quanto prima la riforma. È un testo che migliora sensibilmente la condizione di vita dei testimoni e rende tutto il sistema più rigoroso e trasparente. I testimoni di giustizia sono persone che si mettono in gioco per il bene comune, esponendo la loro vita, e quella dei loro famigliari, a difficoltà e rischi anche rilevanti. Hanno bisogno – e insieme diritto – di sentire lo Stato dalla loro parte, così come credo che lo Stato abbia il dovere ma anche l’interesse di tutelare forme così alte e generose di responsabilità civile.
Dopo tutto questo tempo abbiamo imparato che i figli dei mafiosi, come Rita Atria, non devono pagare le colpe dei padri? Come vede l’iniziativa di alcuni giudici calabresi che allontanano i figli delle famiglie mafiose dal nucleo familiare per stroncare la ‘ndrangheta?
È un’iniziativa da incoraggiare, anche se presenta aspetti delicati da tenere in dovuta considerazione. Nel mio piccolo – non sono un giurista né uno psicologo – ne vedo soprattutto due. Il primo riguarda i meccanismi d’identificazione. Per un ragazzo che cresce in una famiglia di mafia, i “valori” sono quelli che gli vengono insegnati in casa e che trova confermati anche fuori dalle mura domestiche. È evidente allora che, a fronte di un tale “indottrinamento”, il semplice allontanamento attraverso disposizione giudiziaria rischia di produrre l’effetto contrario, cioè una più forte adesione al mondo a cui il minore viene sottratto, e questo nonostante la capacità, la dedizione, la positività dell’ambiente a cui viene destinato fino al compimento della maggiore età.
Il secondo rischio riguarda il “dopo”. L’educazione offre degli orientamenti, permette a un ragazzo di scoprire un’attitudine, una passione, ma questi orientamenti devono poi trovare occasioni e opportunità, cioè la possibilità di realizzarsi in un concreto progetto di vita. Se manca questa dimensione, che chiama in causa il mondo del lavoro, cioè la politica e l’economia, ogni percorso educativo rischia di risolversi in un buco nell’acqua. Ben venga allora l’attenzione verso i minori e la ricerca di strade possibili, comprese quelle del Tribunale di Reggio Calabria. Nella consapevolezza, però, che solo un impegno più ampio sul piano sociale e politico può offrire a quei giovani un destino diverso.
A dicembre 2017 ricorrerà l’anniversario dei 20 anni della scomparsa di Danilo Dolci il sociologo che per primo a Partinico e Trappeto, in Sicilia, parlò pubblicamente di mafia e si batté per l’educazione in quel territorio. Libera Palermo ha partecipato all’attività di recupero e valorizzazione del Borgo di Dio, una delle sedi principali dell’attività di Dolci. Come possiamo ricordarlo oggi?
Danilo Dolci è stato un grande educatore che non ha trasmesso un insegnamento, ma un metodo di liberazione. Ha insegnato che la legge da seguire, quella che fonda e riassume tutte le altre, è la legge della coscienza. Per questo non possiamo ricordarlo solo a parole o con discorsi d’occasione. Lo si ricorda facendo quello che la coscienza ci chiede di fare: essere attenti agli altri, averne cura, impegnarsi per la loro libertà e la loro dignità.
Un recente libro dello scrittore Giacomo Di Girolamo Contro l’antimafia ha messo in luce le criticità presenti all’interno di certa antimafia. Crede che occorra fare un esame di coscienza anche all’interno di associazioni e da parte di professionisti, politici o ex magistrati che sulla lotta alla criminalità organizzata hanno costruito la loro carriera?
Ben venga la denuncia ma deve essere documentata, non come in certa informazione che tende a generalizzare o, peggio, giudicare senza conoscere. Quanto all’esame di coscienza, nessuno deve ritenersi esente dal farlo. Personalmente è almeno dal 2014 che lo ripeto, nella convinzione che “antimafia” sia diventata in troppi casi una parola sospetta, una carta d’identità da esibire a seconda delle circostanze se non una copertura di azioni illecite.
Non possiamo permetterci queste ombre, queste ambiguità. Sono un’offesa alle tante realtà oneste, laiche e di Chiesa, che s’impegnano per costruire dignità e opportunità in contesti anche molto difficili. E ai famigliari delle vittime delle mafie, persone che sono state uccise per un ideale di giustizia che sta a noi realizzare.
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