La catena di attentati a Parigi infiamma il dibattito sul legame tra islam e terrorismo. Tuttavia, mentre i contributi sulla definizione del primo si moltiplicano, la concezione di “terrorismo” viene lasciata indisturbata, come se la figura del terrorista fosse ormai conosciuta da tutti.
Partendo dal fatto che se questo articolo dovesse studiare la moralità dell’uso del terrore finirebbe ancor prima di iniziare (dal momento che è a tutti evidente quanto sia indifendibile e schifosamente inaccettabile questo strumento), si vuole qui ricordare come sia difficile comprendere alcuni fenomeni con oggettività, soprattutto quando si è spaventati e terrorizzati.
L’uso del terrore in guerra è antico quanto la storia stessa dell’uomo. Sin dagli albori della civiltà, la guerra riserva al terrore uno spazio e un tempo precisi: il teatro della battaglia, chiamato da Thomas Schelling “il luogo dove ciascuno si sforza sistematicamente di ispirare terrore all’altro”.
Tuttavia è con l’uso del terrore al di fuori del campo di battaglia che nasce l’idea di terrorismo, dove il terrore non è finalizzato a infliggere sofferenze fini a se stesse, ma si serve di queste ultime per ottenere altri obiettivi.
La parola “terrorista” apparve per la prima volta nella storia l’11 settembre, non del 2001, ma del 1794, pronunciata da Gracco Babeuf durante il “Terrore” francese.
Il terrorista ha lo scopo di modificare le intenzioni degli avversari non tanto attraverso la sofferenza inflitta, bensì grazie a quella latente. L’uso della violenza gratuita non deve essere considerato “terrorismo”, in quanto il terrorismo rappresenta non un fine ma un mezzo per raggiungere scopi politici.
Tra il 400 e il 200 a.C., Erodoto e Senofonte scrivono di come i persiani conquistassero le città ioniche radendo al suolo interi villaggi non tanto per distruggere quei villaggi in particolare, ma per spargere il terrore nelle città limitrofe che ancora non si erano arrese.
Nell’epoca moderna furono gli stati nazionali, e in particolare quelli democratici, a usare e teorizzare l’uso del terrore come arma. Prima nelle guerre coloniali (l’aviazione britannica in Iraq nel 1920, quella francese contro le rivolte in Siria, Marocco, Algeria e quella italiana nella conquista di Libia e Etiopia) e in seguito anche nei combattimenti tra popoli europei.
A partire dalla guerra civile americana, l’uso del terrore venne teorizzato con una particolare attenzione alla pianificata distruzione sistematica del nemico. Nella guerra di secessione americana il generale Sherman affermò che l’unico modo di porre fine alla guerra fosse quello di “renderla terribile al di là di ogni sopportazione” e rivolse le proprie forze contro la volontà di resistenza del popolo civile nemico, affinché questo chiedesse al governo sudista di fermare le violenze con la resa.
L’apoteosi dell’uso sistematico del terrore come strumento di guerra, o suo sostituto, arrivò nella Seconda guerra mondiale. Negli anni Venti il terrorismo, contro ogni falso stereotipo, venne pianificato in tempo di pace dalla Royal Air Force britannica come il primo e principale strumento da impiegare contro i civili nemici in caso di conflitto.
Il generale dell’Aviazione italiana Giulio Douhet teorizzò la strategia del Morale Bombing, “Bombardamento del Morale”, stabilendo che fosse molto più efficace infrangere le resistenze dei civili innocenti e scatenare il panico tra le città inermi, piuttosto che usare la forza contro gli eserciti, resistenze solide e addestrate a sopportare la violenza.
Un atto terroristico, per definirsi tale, deve essere costituito da tre soggetti: un agente, una vittima e un sopravvissuto, vero destinatario del messaggio di violenza portato alla vittima.
Molti analisti riconoscono nel bombardamento atomico di Hiroshima e Nagasaki l’atto terroristico più perfetto della storia.
L’agente (gli Stati Uniti) colpì con una forza terrificante una vittima (le città di Hiroshima e Nagasaki, punti tutt’altro che centrali nella politica giapponese), per mandare un messaggio molto efficace ai sopravvissuti (il governo di Tokyo e la popolazione nipponica) e ottenendo, in ultima istanza, la fine della guerra.
Quest’analisi smentisce inoltre il falso luogo comune secondo cui il terrorismo è uno strumento usato solo dai deboli e in momenti di difficoltà. Hiroshima e Nagasaki furono azioni compiute da una democrazia a difesa della libertà in un momento in cui gli alleati avevano un chiaro vantaggio.
Un importante fattore che viene spesso sottolineato dagli analisti occidentali è che gli efferati atti di violenza terroristica non siano fatti in tempo di pace bensì in tempo di guerra.
È tuttavia necessario precisare che il “tempo” viene scandito a seconda della nazionalità dell’osservatore: quando l’11 settembre 2001 gli Stati Uniti denunciarono di essere stati attaccati in tempo di pace, gli esponenti di Al-Qaida ribatterono che, se per gli americani quello era un periodo di pace, il Medio oriente era da anni in stato di guerra, occupato da forze militari statunitensi.
Dai documenti di Al-Qaida si comprende come l’atto terroristico dell’11 settembre 2001 abbia avuto lo scopo di operare una redistribuzione della percezione di vulnerabilità e paura, la stessa paura che hanno i civili afghani quando camminano per strada a Kabul, impotenti ed esposti a violenze improvvise e imprevedibili.
A livello concettuale, gli stati hanno operato una cesura tra quello che è riservato esclusivamente alle organizzazioni statali e quello che invece è proibito fare ad altre organizzazioni private, squalificando di fatto tutti gli attori diversi dalle entità statali dall’utilizzo del terrore a scopo politico.
Il risultato di questa operazione di delegittimazione è che atti identici sono caratterizzati o meno come “terrorismo”, a seconda del soggetto che li compie.
La Nato in Jugoslavia nel 1999 non bombardò solo obiettivi militari ma anche infrastrutture e servizi pubblici, in modo da spingere i civili a bussare alla porta di Slobodan Milošević per chiedere la resa.
Allo stesso tempo, l’attacco di al-Qaida dell’ottobre 2000 al cacciatorpediniere americano Cole, pur essendo un attacco a obiettivi militari e non civili, venne riconosciuto come terroristico in quanto compiuto da un’organizzazione identificata come terrorista, sebbene il suo scopo fosse quello di colpire direttamente le forze militari del nemico e non di terrorizzare il popolo.
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