Il pg di Milano Massimo Gaballo ha presentato il 19 ottobre 2018 il ricorso in Cassazione contro la sentenza con cui la Corte d’Assise d’Appello di Milano ha assolto sei poliziotti e due carabinieri per la morte di Giuseppe Uva.
L’uomo era morto il 14 giugno del 2008 mentre si trovava all’ospedale di Varese dopo essere stato portato in caserma per accertamenti.
Il pg ha quindi chiesto di riascoltare 4 testimoni tra i quali Alberto Bigioggero, l’amico di Uva presente la sera del fermo e condannato di recente a 14 anni per l’omicidio del padre.
In passato, Gaballo aveva chiesto una condanna fino a 13 anni di carcere per omicidio preterintenzionale di Uva e adesso contesta la legittimità del fermo: Uva e Bigioggero erano stati fermati per disturbo della quiete pubblica.
“Se gli imputati non avessero operato al di fuori dei propri poteri il signor Uva sarebbe tornato a casa e, non subendo alcun trattenimento contro la sua volontà, ammanettato e consapevole dell’ingiustizia che stava subendo, non si sarebbe agitato e non sarebbe stato condotto in ospedale – e in preda a una fatale tempesta emotiva – non gli sarebbero stati somministrati i farmaci e con ogni probabilità sarebbe ancora vivo”.
La Corte d’Appello , continua Gaballo, “dopo avere travisato i fatti, ha erroneamente ritenuto in diritto che la privazione della libertà personale di Uva potesse essere legittimata dal dovere impedire che i reati vengano portati ad ulteriore conseguenze”.
Nel suo ricorso, il pg chiede anche di impugnare l’assoluzione per il reato di sequestro di persona, contestato ai carabinieri che portarono Uva in caserma, assolti anche per questa imputazione.
L’assoluzione degli imputati
Il 31 maggio 2018 sono stati tutti assolti in appello gli imputati per la morte di Giuseppe Uva, l’operaio di Varese morto il 14 giugno 2008, il giorno dopo il suo arresto e dopo aver passato una notte in ospedale.
Questa sentenza conferma in pieno quella di primo grado. Gli imputati sono stati assolti perché “il fatto non sussiste”. A processo c’erano i due carabinieri che avevano fermato Uva quella sera, Paolo Righetto e Stefano Dal Bosco, e altri sei poliziotti: Vito Capuano, Luigi Empirio, Pierfrancesco Colucci, Francesco Focarelli Barone, Bruno Belisario e Gioacchino Rubino.
Per Righetto e Dal Bosco la procura aveva chiesto 13 anni, per gli altri poliziotti 10 anni.
La vicenda
Giuseppe Uva era stato fermato il 13 giugno 2008 perché, in una strada di Varese, stava spostando alcune transenne. Dopo essere stato portato in caserma, fu disposto per lui un trattamento sanitario obbligatorio.
Uva fu quindi trasferito in ospedale, dove morì la mattina successiva per arresto cardiaco.
Secondo la procura, che aveva contestato agli imputati i reati di omicidio preterintenzionale e sequestro di persona, Uva morì, tra le altre cose, “a causa di un’aritmia provocata dalla violenta manomissione sulla sua persona col trasferimento coatto in caserma, anche a prescindere dalle eventuali percosse subite e dalle lesioni riscontrate sul suo corpo”.
Sarebbe stato quindi lo stress provocato da un trasferimento in caserma non motivato (Uva non aveva commesso alcun reato), ad aggravare la sua patologia cardiaca fino a provocarne la morte.
Secondo la ricostruzione accusatoria, i due carabinieri volevano punire Uva perché quest’ultimo sosteneva di avuto una relazione con la moglie di uno di loro.
Nel corso del processo di primo grado e di appello non sono state raccolte prove sufficienti per dimostrare che Uva fosse stato percosso dagli agenti. Tuttavia, come detto, per i pm il fatto non era determinante per stabilire le responsabilità degli imputati.
La difesa ha parlato di un “processo mediatico”, con ricostruzione prive di fondamento e amplificate da giornali e televisioni.
Uno dei testimoni chiave del processo è stato Alberto Biggiogero, l’amico di Giuseppe Uva che era in giro con lui a Varese quella sera e condotto anche lui in caserma. Biggiogero, nel processo, raccontò che uno degli agenti, al momento del fermo, disse a Uva: “Proprio te cercavo, questa notte non te la faccio passare liscia”.
Bigioggero, inoltre, sostenne di aver udito le urla di Uva in caserma, che si lamentava delle percosse subite. La procura, nel processo di primo grado, non lo aveva considerato attendibile, chiedendo l’assoluzione degli imputati.
Nel processo d’appello, invece, il sostituto procuratore Massimo Gaballo ha sostenuto che Biggiogero, nonostante i suoi numerosi problemi legali al consumo di alcool e di droghe, “fosse capace di intendere e di volere, come stabilito da un consulente in aula”. Una tesi però non accolta dai giudici.
Nel febbraio del 2017, Alberto Biggiogero uccise il padre a coltellate nella sua abitazione di Varese. Proprio due giorni fa, il 29 maggio, è stato condannato con rito abbreviato per questo delitto a 14 anni di carcere.
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