Aria di scontri all’interno del Partito Democratico.
La scelta di Nicola Zingaretti di scendere in campo, e le parole con cui il governatore l’ha accompagnata, hanno lasciato il segno all’interno del partito.
A partire dall’opinione espressa sul presidente francese Emmanuel Macron: “Alle Europee il Pd dovrà costruire un’alleanza con tutte le forze europeiste, anche con Macron. Ma noi siamo diversi da lui: quindi sì difendere l’Europa con Macron, ma non fare diventare il Pd quella cosa lì”, ha detto il governatore del Lazio dal palco di Pietrasanta, intervistato da Peter Gomez durante la festa del Fatto Quotidiano.
Come aveva già ammesso Carlo Calenda, Zingaretti non esclude la possibilità di cambiare il nome al partito, che potrebbe essere percepito dall’opinione pubblica come sinonimo di un vecchio establishment. “Il cambio di nome non è un tabù. Non lo escludo affatto, ma solo al termine di un percorso. Se questo porterà a un’identità diversa, vedremo se si dovrà cambiare nome al Pd”.
Nei corridoi di Montecitorio, prima della pausa estiva, più di un esponente dem aveva sollevato dubbi sull’opportunità di insistere con un brand che, a cinque anni dalla vittoria alle politiche e due governi, ha collezionato tre sconfitte consecutive e ora si appresta ad affrontare la tornata delle europee del 2019.
Altra l’opinione di Maurizio Martina, che intende procedere a una ricostruzione complessiva del Partito Democratico che parta dalla Carta dei Valori e prosegua con una “riflessione” sullo statuto, primarie comprese.
“Non credo che la funzione del Partito democratico sia finita”, spiega il segretario, “non penso che dobbiamo affrontare il lavoro di riprogettazione del Pd partendo dalla coda. Il tema della giornata è cambiare nome, ma dobbiamo partire dalla testa: l’Italia è la frontiera più importante di una partita sulla nuova Europa che si giocherà da qui alle prossime settimane”.
Per Martina, si può anche discutere di un cambio di nome ma solo al termine di un discorso più ampio e compiuto che parta dalla forma partito: “Ci siamo cullati sugli allori pensando che le primarie potessero colmare la funzione democratica di un partito che si metteva a costruire nuova partecipazione. Ma la discussione sulle primarie è diventata una gabbia più che una opportunità. Era una novità, ora non lo è più. Su questo io rifletto”.
E aggiunge: “Serve una carta fondamentale di riferimento perché quella della fondazione del Pd è vecchia rispetto a queste sfide”. Di questo, per il segretario, “dovrà occuparsi il congresso”.
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