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Bruce Springsteen e la sera in cui il Circo Massimo è tornato giovane

Il rocker americano ha intrattenuto per quattro ore 60mila fan nell'arena romana, spaziando dai classici del rock'n'roll all'omaggio commosso alle vittime di Nizza

Di Guglielmo Latini
Pubblicato il 17 Lug. 2016 alle 16:28

Il sole non è ancora tramontato dietro i pini senza tempo che
costeggiano il Circo Massimo, 60mila
persone affollano uno dei simboli della Città Eterna, e come se la scena non fosse sufficientemente epica, dal palco iniziano a risuonare, come una campana che richiami i fedeli alla
messa, le note familiari di
C’era una
volta il West
.

Mai musica d’apertura fu così adatta, considerando lo
spettacolo in Cinemascope che offre stasera l’arena romana, quasi fatto apposta
per essere immortalato da un’inquadratura di Sergio Leone, che come in quel film
salga da dietro il palco e accompagnata dalle note di Morricone scopra lentamente la vastità immensa della folla
presente.

Come duemila anni fa, per una sera questo luogo solitamente desolato
e riservato agli amanti del jogging torna a essere il set di uno spettacolo di
epica e sudore, folle adoranti e idoli da portare in trionfo. Stasera nessuna
corsa delle bighe o spettacoli di gladiatori in programma, però: quello che
arriva sulla scena accolto da un boato del pubblico è un 66enne del New Jersey
armato soltanto di una chitarra.

Si chiama Bruce Springsteen, ed è accompagnato da una fida schiera di compagni d’armi, l’eterna E Street Band.

Il primo brano è già di per sé un omaggio ai fan romani e
alla città: un pezzo del 1973 che dal vivo è una rarità assoluta, New York City Serenade, che nel 2013 gli
aficionados di tutto il mondo avevano
invidiato al pubblico di Roma quando era stato suonato all’Ippodromo delle
Capannelle. Accompagnate dagli archi dell’Orchestra Roma Sinfonietta, le
storie metropolitane di Billy e Diamond Jackie, tra le luci di Broadway e i
treni di periferia, tra le prostitute e i robivecchi che cantano nella notte di
Manhattan, sembrano allo stesso tempo lontanissime e universali, per una
serenata di città che questa sera è la Città per eccellenza a prendere in
prestito.


Springsteen però non lascia molto tempo per abbandonarsi
alla malinconia, e dopo aver salutato in italiano “la città più bella del mondo”,
esclama un “Roma, daje!” che fa
sorridere tutti i presenti prima di lanciarsi in una sequenza di pezzi ad alto
tasso di adrenalina, da Badlands a Jackson Cage, infilando qua e là cover mozzafiato
di classici altrui come la Boom Boom  di John Lee Hooker o Summertime Blues di Eddie Cochran.

La scioltezza con cui il Boss passa dalla leggerezza più
esaltante alla riflessione più profonda è uno dei suoi più grandi segreti di scrittore
e performer, e lo si nota bene nell’accoppiata Independence Day e Hungry
Heart
, entrambe da The River, il
disco doppio del 1980 che lo consacrò come icona del rock e che questo tour
celebra a 36 anni di distanza.

Il primo pezzo, una ballata struggente su un figlio
incompreso (verosimilmente il giovane Springsteen), che si confronta con il
padre prima di lasciare la casa dei genitori e affrontare la vita adulta, è
accompagnato dalle luci di migliaia di cellulari accesi, e colpisce all’anima
per come l’autore offra in modo così trasparente la materia della sua vita al
pubblico.

Il secondo, suonato subito dopo, è invece un tripudio di
cori del pubblico e ritmi pop anni Sessanta, che come niente fosse liquida nei
primi due versi la storia del protagonista che “aveva moglie e figli a
Baltimora, è uscito a fare un giro e non è più tornato
”, tutto per inseguire le necessità del suo cuore affamato.

Il concerto prosegue su quest’alternanza che è in fondo la
cifra stilistica principale di Springsteen: la capacità di rimanere credibile
come cantautore impegnato e genuino, magari armato di una sola chitarra
acustica e di un’armonica, e allo stesso tempo il destino di essere, come lui stesso dichiara,
un “prigioniero del rock’n’roll”, in grado di sfiancare per quattro ore una
folla mai paga a colpi di istrionismi da entertainer consumato.

Il pubblico di Roma sembra apprezzare questo dualismo, e
pende dalle sue labbra quando nel silenzio più assoluto imbraccia l’acustica
per
The Ghost of Tom Joad, omaggio a
Steinbeck e canto degli emarginati dimenticati dalla Storia, che nella serata di Roma viene infatti dedicata a tutti i lavoratori italiani impegnati nel sociale.

La forza delle canzoni del Boss sta però nel non limitarsi a
illustrare le storture del mondo e le vite di chi non ce l’ha fatta, ma a
indicare una speranza, a offrire un conforto dalla voce di chi ha trovato la
sua strada venendo dal nulla ma non dimentica chi è rimasto indietro. In questo senso, è esemplare The Promised Land, apprezzatissima dal pubblico di Roma, in cui
canta di voler “esplodere e fare a pezzi tutta la città, prendere un coltello e
strapparmi questo dolore dal cuore
”, ma nonostante tutto ribadisce il suo
credo: “Non sono un ragazzino,
mister,
no, sono un uomo, e credo in una terra promessa
”.

Le canzoni continuano saccheggiando i suoi quarant’anni di
carriera e per ogni epoca c’è una chicca attesa dai fan più accaniti: Drive All Night, ballata che fa piangere
e trattenere il fiato a 60mila persone, o l’amatissima Because the Night scritta con Patti Smith, e poi la catarsi collettiva di Land of Hope and Dreams, un inno su un
viaggio tra il terreno e lo spirituale che Springsteen dedica non a caso alle
vittime del folle attentato di Nizza.

Sul finale il pubblico è ormai stremato, ma il capobanda non
dimostra segni di stanchezza, e quando lo fa è solo un trucco di scena, come
nel siparietto in cui durante la trascinante Shout Little Steven – da sempre fedele chitarrista – lo copre con
un mantello e lo accompagna fuori dal palco come un anziano affaticato, prima
che il Boss ci ripensi e torni correndo al microfono per l’ennesimo ritornello.

Circa tre ore e cinquanta e trentaquattro canzoni dopo, l’uomo
sul palco saluta e il pubblico offre l’ultimo lunghissimo applauso senza più
forza nelle mani, per poi allontanarsi dalle rovine romane tra occhi lucidi e
cori spontanei, come dopo la vittoria di una finale in cui hanno vinto tutti.

Una nota recensione di un concerto di Springsteen del 1974
vedeva l’autore spiegare che “in una notte in cui aveva bisogno di sentirsi
giovane”, aveva miracolosamente “visto il suo passato rock’n’roll balenargli
davanti agli occhi”. Domani l’arena sarà di nuovo un prato vuoto e silenzioso,
quasi dimentico della sua storia millenaria, ma forse per una notte anche il
Circo Massimo ha sentito il brivido di rivivere il suo passato rock’n’roll… di
due millenni fa.

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