Quando Mashuda si è sposata, non sapeva quasi nulla dell’uomo che avrebbe sposato. Sapeva solo che grazie a lui avrebbe potuto trasferirsi in Italia.
“Sono arrivata a Roma dal Bangladesh nel 1997, a 25 anni, per raggiungere mio marito”, ci racconta Mashuda, che incontriamo in un bar del quartiere romano di Tor Pignattara.
Mashuda è una musulmana praticante, ma non porta il velo. “Anche mio marito è bangladese (si dice così, e non bengalese come è più diffuso), ma viveva in Italia già da dieci anni ed era tornato in Bangladesh qualche giorno solo per le nozze. Sono stati i nostri genitori a combinare il matrimonio”.
I flussi migratori dal Bangladesh all’Italia si sono intensificati a partire dai primi anni Novanta. Secondo il rapporto Caritas/Migrantes del 2011, nel Lazio ci sono circa 19mila bangladesi e oggi Roma è la quarta città al mondo per numero di probashi, nome con cui si identificano gli emigrati del Bangladesh.
La maggior parte sono uomini (circa il 75 per cento), ma la presenza femminile è in costante aumento, segno del passaggio da una migrazione lavorativa, temporanea, a una più stanziale. La maggior parte degli uomini bangladesi riesce a trovare un lavoro in Italia, in genere nel settore della ristorazione o del commercio. Per le donne, invece, trovare un impiego è più difficile, nonostante molte abbiano una cultura accademica.
Le donne che dal Bangladesh raggiungono l’Italia arrivano chiedendo il ricongiungimento familiare. Ma il marito con cui si “ricongiungono” è spesso uno sconosciuto. In Bangladesh pochi matrimoni avvengono per amore.
Nella maggior parte dei casi, sono le famiglie a presentare ai figli un ventaglio di possibili coniugi e a organizzare gli incontri. Spesso la trattativa è affidata a veri e propri mediatori, in genere membri fidati del clan familiare. La casta e l’agiatezza economica sono i principali criteri di scelta. Per questo i bangladesi che vivono all’estero, godendo della fama di uomini di successo perché trasferitisi in Paesi più ricchi, sono considerati i mariti ideali: sposare un emigrato è un’occasione di ascesa sociale.
L’immagine che i migranti trasmettono agli amici e ai parenti in patria corrisponde raramente alla realtà. Anche i più poveri alimentano il mito illusorio della migrazione come garanzia di ricchezza. “Postano sui social network foto con macchine di lusso, parcheggiate per strada ma presentate come se fossero le loro”, racconta Noemi Bisio, ricercatrice dell’Università Roma 3 e autrice della tesi Le donne bangladesi a Roma: come si trasforma una comunità.
Le donne sono libere di rifiutare il matrimonio combinato, ma ci sono tanti motivi che le spingono ad accettare. “Si dice sì per seguire la volontà dei genitori, per motivi economici, perché è l’età giusta, o semplicemente perché è stato così per le tue sorelle, per tua madre e per tua nonna, ed è difficile dire di no”, ci spiega Behts Ampuero dell’associazione Asinitas, una Onlus che si occupa di progetti educativi e sociali per migranti a Roma.
Dopo l’accordo raggiunto dalle rispettive famiglie, i mariti tornano in Bangladesh per celebrare le nozze. I documenti per il ricongiungimento familiare, però, possono tardare anni ad arrivare. Fino a poco tempo fa, l’attesa standard per un permesso di soggiorno era di sette anni. Oggi si è accorciata a una media di tre.
“Mi sono sposata a 20 anni, poco prima di diplomarmi”, racconta Mashuda, “ma ci ho messo quattro anni e mezzo per avere i documenti per trasferirmi. In quel periodo sono andata a vivere in campagna con i miei suoceri, che abitavano lontano da casa mia. Per la prima volta mi hanno costretto a indossare il velo, ma io me lo toglievo appena uscivo di casa. È stata dura”.
Una donna bangladese sposata entra a far parte in tutto e per tutto della famiglia del marito, anche se l’ha visto solo una volta. “Per molte ragazze la convivenza con i suoceri può essere un incubo”, dice Beths. “Una ragazza ci ha raccontato di aver vissuto per tre anni come se fosse un ospite. Non era libera di guardare la televisione, aveva tanti obblighi e doveva sempre aiutare la famiglia. Vedeva l’Italia come l’unica via di scampo”.
Prima di raggiungere il marito a Roma, Mashuda aveva fatto in tempo a laurearsi in sociologia e a frequentare un master. Dopo alcuni impieghi temporanei, oggi Mashuda lavora come mediatrice culturale alla Questura di Roma ed è attiva nel settore del volontariato. Collabora con varie associazioni, dove si occupa soprattutto di donne e minori migranti.
Il suo matrimonio è stato fortunato, ma il suo caso è un’eccezione. Come ci raccontano le operatrici di Asinitas, per molte ragazze quella che sembra una via di scampo si rivela in realtà una prigione. Le condizioni abitative sono uno dei maggiori problemi all’arrivo in Italia: a causa degli affitti elevati, molti bangladesi vivono in appartamenti sovraffollati e le nuove spose si ritrovano a convivere anche con una decina di uomini. Sono frequenti i casi di violenza domestica, che raramente vengono denunciati.
“I primi tempi nel nuovo Paese sono spesso traumatici e le donne vivono un forte isolamento”, racconta Beths. “Il marito è uno sconosciuto, non parlano la lingua, non hanno riferimenti culturali e non conoscono nessuno. Raramente lavorano e passano le loro giornate in casa, ad accudire i bambini”.
L’educazione dei figli è un tema particolarmente sensibile per la comunità bangladese in Italia: nati e cresciuti nel nostro Paese, i giovani di seconda generazione non sempre riescono a conciliare la cultura della propria famiglia con quella italiana.
“Ci sono casi in cui i genitori allontanano le figlie adolescenti dalla scuola, rimandandole a studiare in Bangladesh”, ci racconta Valentina Anselmi di Asinitas. “Un po’ per imparare l’inglese, un po’ per paura che, frequentando scuole miste, acquisiscano dei costumi troppo liberi”.
L’influenza della cultura occidentale è pero inevitabile e anche l’usanza del matrimonio combinato probabilmente verrà persa tra le seconde generazioni. “Mio figlio è italiano”, dice Mashuda. “Sarà libero di sposare chi vuole, non accetterebbe niente di diverso”.