Per quanto incredibile possa sembrare, non è semplice scrivere su Anne Frank. Da una parte c’è il suo sorriso, intenso e potente, evocativo della bellezza e dell’intelligenza che permea le pagine del Diario, e dall’altra, a imporsi come inevitabile contrappeso, è la necessità di confrontarsi e di riflettere sulla violenza che ha reciso la sua vita.
Se si trascura quest’ultimo aspetto, relegandolo in un angolo nebbioso della mente, di Anne Frank non resta che il mito e il sorriso, un idolo o un’immagine completamente disancorata dagli eventi della persecuzione e dello sterminio, al punto da poter essere associata a titolo di sfregio o di vanto alle divise colorate delle squadre calcistiche, come accaduto in questi giorni in Italia.
Sin dalla sua pubblicazione e dalle prime trasposizioni teatrali e cinematografiche realizzate negli Stati Uniti negli anni Cinquanta, il Diario di Anne Frank ha avuto il merito di portare l’attenzione sulla persecuzione degli ebrei europei attraverso un coinvolgimento soprattutto empatico ed affettivo, fondato sul passaggio delle emozioni e dei sentimenti. Tuttavia, nonostante il dato storico, queste prime rappresentazioni tendevano a tenere lontano dall’immediata consapevolezza del pubblico il tragico epilogo sia per scacciare lo spettro delle responsabilità internazionali nel genocidio sia per assecondare il gusto leggero dell’intrattenimento. Ad essere invece ostentata era la tenace fiducia negli esseri umani dichiarata da Anne nel Diario, utilizzata però in seguito e diffusamente da buona parte della comunità mondiale come paravento per non vedere fino in fondo “quanto sia bastato all’uomo di fare dell’uomo”, come Primo Levi ha scritto in Se questo è un uomo.
Sulla base di queste premesse, da allora fino ai giorni nostri l’immagine di Anne Frank ha cominciato a vivere prevalentemente per proprio conto, scollegandosi dalla realtà storica e dalla vicenda umana originaria, assorbita dal rapporto appassionato, più emotivo che intellettuale, che con lei hanno instaurato milioni e milioni di lettrici e lettori in tutto il mondo.
Spesso privata di complessità e conoscenza storica, la figura di Anne è diventata così un contenitore di identificazioni e proiezioni individuali e collettive, un oggetto di facile consumo in cui vedere se stessi, in balia di strumentalizzazioni politiche, culturali ed economiche. Il fenomeno del “sentimentalismo a buon mercato” sorto attorno al Diario era stato denunciato da Hannah Arendt già negli anni Sessanta, quando la filosofa si interrogava sull’effettivo impegno delle giovani generazioni a confrontarsi con quanto accaduto. A riflettere cioè sui crimini “impunibili e imperdonabili” compiuti da uno Stato europeo culturalmente e tecnicamente avanzato con l’intento di estirpare un intero popolo dalla superficie terrestre.
Sotto tali sembianze, come strumento di consumo asservito ai desideri e ai bisogni personali e di gruppo, la figura di Anne Frank è dunque approdata sugli spalti dello stadio Olimpico di Roma, manipolata dagli ultrà estremisti e fascisti di una squadra calcistica.
Data l’immensa popolarità e la sacralità di questa immagine a livello mondiale, questa azione di stupidità e ignoranza, tanto più pericolosa perché mascherata dall’apparenza della goliardia – come avrebbe sottolineato Pasolini – non poteva che ritorcersi contro gli stessi suoi ideatori ed esecutori.
Non a caso, al di là del significato razzista e antisemita, a livello istituzionale e collettivo questo evento è stato vissuto come profanatorio. Le voci di indignazione si sono sollevate all’unanimità e lo stesso presidente della Repubblica Sergio Mattarella, generalmente molto riservato e parco di parole, è intervenuto duramente sollecitando l’intervento del ministro degli Interni Minniti. Eppure gli atti di violenza, razzismo e intolleranza avvengono in Italia all’ordine del giorno e negli stadi di settimana in settimana, senza tuttavia scontrarsi con una così ferma condanna da parte delle istituzioni. La potenza simbolica del volto di Anne Frank è dunque riuscita a smuovere le autorità laddove molto spesso la sola violenza non basta.
Tuttavia, secondo una modalità piuttosto inquietante, le risposte dei politici e di buona parte della stampa, pur procedendo in direzione contraria, si sono mosse nello stesso solco banalizzante e inconsistente tracciato dagli ultrà, mostrando avventatezza e sconsideratezza nella proposta di soluzioni riparative.
La Repubblica, ad esempio, ha condannato il gesto creando un collage di immagini dove il volto di Anne è ripetuto innumerevoli volte in associazione a molteplici magliette e squadre calcistiche, come se quella della Roma non fosse già bastata. Sulla spinta dell’impulso e nonostante la diversità di intenti, questa testata giornalistica ha di fatto riproposto ed esasperato il modello e la forma utilizzata dagli ultrà.
Il suo direttore Mario Calabresi ha scritto: “Riprendiamocela”, “Anna Frank siamo tutti noi, può e deve avere la maglia di ogni squadra […], ogni club ne deve fare una bandiera” perché così “le si restituisce valore”. Ne siamo sicuri? Quale valore viene tributato a una giovane ragazza perseguitata e annientata da un regime totalitario affibbiandole le magliette del calcio italiano?
È possibile che per molti italiani appassionati di sport questo gesto costituisca uno dei massimi onori, ma davvero si vuole disperdere il ricordo di Anne Frank fra maglie e bandiere che dicono molto della storia culturale dell’Italia ma nulla della sua?
Dire “riprendiamocela” significa dunque mettere in moto un meccanismo predatorio di appropriazione, di riduzione e assimilazione di una figura storica a codici che riguardano più la nostra esperienza che la sua.
Se si vuole proteggere la memoria di Anne Frank, e rinsandarla, rafforzarla di fronte a questi atti presenti e in previsione di quelli futuri, sarebbe necessario partire non dalla nostra storia ma dalla sua, dalle fonti, dal Diario, dai documenti e dalle testimonianze che raccontano anche della sua fine. Esistono libri, documentari accurati dedicati a questo tema.
Dire “siamo tutti Anna Frank” significa che Anne non esiste più, che la sua identità si disperde in innumerevoli altre che nulla c’entrano con la sua vicenda di persecuzione e annientamento in un Lager nazista. Nessuno può sostituirsi a qualcun altro, altrimenti avremmo una massa priva di individualità, in balia delle mode e degli slogan, trascinata da questi tsunami sentimentali dove molto si dice e poco si pensa e si risolve, come avviene ormai da diversi anni in occasione di eventi tragici. Anne Frank è Anne Frank come Primo Levi è Primo Levi e Mario Calabresi non può essere né l’una né l’altro.
Con lo stile pragmatico che lo contraddistingue, il segretario del PD Matteo Renzi ha proposto ai giocatori di scendere in campo con “la Stella di David appuntata sul petto al posto degli sponsor”. È possibile che un distintivo usato per discriminare, perseguitare e deportare milioni di persone nei campi di sterminio e concentramento, venga riproposto in chiave solidale nei campi di pallone? La drammaticità e il peso di questo simbolo dovrebbe gravare sulle nostre coscienze e non alleggerirle associandolo a ciò che nella nostra cultura è puro intrattenimento.
Il presidente della Lazio Lotito ha annunciato che ogni anno “porterà” duecento tifosi in visita ad Auschwitz, come se questo bastasse per capire, come se visitare un sito memoriale significa trasfondere automaticamente nelle menti degli individui la conoscenza e la comprensione dei meccanismi politici, culturali, economici, sociali, psicologici che hanno condotto alla Shoah. Senza una base conoscitiva, un lavoro preparatorio, visitare i luoghi degli ex campi di concentramento e sterminio serve poco. L’impatto è più emotivo che di evoluzione intellettuale e morale.
In questa vicenda tutto è stato affrontato secondo una modalità operativa, dove molto si fa, si celebra e si esalta, e poco si pensa e si comprende. D’altra parte questo è lo stile generale con cui ci si accosta al ricordo del genocidio degli ebrei europei ormai da una ventina d’anni. Piuttosto che trarre spunti per riflettere e pensare ai caratteri e alle implicazioni di quanto accaduto, magari ritirandosi in solitudine a leggere alcune pagine del Diario, si è proposto di declamare stralci dell’opera prima delle partite di domenica prossima. Questa azione simbolica produrrà solo chiacchiere al vento, che si aggiungeranno alle altre già dette.
La riflessione su Anne Frank e sulla sua vicenda storica non appartiene agli stadi, luoghi dove l’umanità si conglomera e diventa massa disperdendo identità e individualità, ma alle menti, alla dimensione del pensiero e della riflessione, della consapevolezza, della solitudine e del confronto con gli altri, per capire e imparare meglio. Ed è con questo patrimonio che si dovrebbero poi varcare i cancelli dei campi da calcio, evitando che episodi come quello accaduto si ripropongano.
Di questa consapevolezza, la politica e la stampa italiana non hanno dato negli scorsi giorni alcuna prova.