“Ho recuperato quello che voi avete abbandonato. Sono qui per quello che voi mi avete tolto, per quello che le multinazionali hanno fatto al mio paese. Non ho sottratto niente a nessuno e ho tirato fuori le unghie e i denti per realizzare quello che ho”. Le parole schiette e orgogliose sono di Agitu Idea Gudeta, che nei suoi 30 anni ha già tanti ricordi, quelli dell’Etiopia e della terra che ha dovuto lasciare.
Agitu è un’imprenditrice di successo. Vive in Trentino dal 2010, anno in cui è partita dall’Etiopia per trasferirsi nel nostro paese. Ha avviato un’impresa per l’allevamento delle capre e la produzione di formaggi biologici ed è considerata tra i produttori di eccellenza nella provincia di Trento.
Il suo legame con l’Italia dura da tempo. Dopo il liceo Agitu andò a frequentare la facoltà di sociologia a Milano, ma decise di tornare in Etiopia per supportare i contadini dell’Oromia. In questa regione centromeridionale del paese vive un terzo della popolazione di etnia oromo, il cui sostentamento è sempre derivato dalla coltivazione della terra.
“Dal 2000 il processo di industrializzazione si è fatto aggressivo nel nostro paese”, racconta Agitu. “È cominciato un accaparramento delle terre da parte del governo per cederle alle multinazionali straniere che le usano per coltivare cereali e monocolture destinate all’esportazione. I militari hanno cominciato a sottrarre i terreni ai contadini in modo coatto, privandoli di un bene essenziale. La terra è vita, tutto si costruisce intorno alla terra e l’industrializzazione stava portando stravolgimenti difficili da sostenere”.
Agitu, insieme ad altri coetanei, decise di avviare un progetto di sviluppo in area rurale, coinvolgendo diverse famiglie contadine. Dal 2005 ha partecipato alle manifestazioni che denunciavano le condizioni di sfruttamento dei lavoratori e il landgrabbing, quella nuova forma di colonialismo devastante per l’ambiente e le comunità contadine locali che porta miseria e povertà per le famiglie etiopi.
Nel 2010 Agitu è stata costretta a scappare. La sua vita era in pericolo, molti suoi compagni erano scomparsi, rapiti o uccisi da governo, e l’unica soluzione per la salvezza era la fuga.
“Mi avvisarono che la situazione era precipitata mentre mi trovavo nella capitale etiope per sbrigare delle pratiche burocratiche”, racconta Agitu. “Da lì presi un aereo per Malpensa. I miei genitori erano già negli Stati Uniti da tempo e i miei fratelli si sacrificarono per far partire me”.
Agitu tornava in Trentino per ripartire e immaginare un nuovo futuro. Una volta in Italia, ha sentito l’urgenza di creare qualcosa di suo, di sostenibile e compatibile con la sua idea di integrazione con l’ambiente circostante e che facesse del bene alla comunità.
L’idea di allevare le capre nacque quando Agitu sentì parlare di una particolare razza, la pezzata mòchena, un tempo diffusa in Trentino, ora quasi scomparsa perché non abbastanza produttiva.
Con le sue 15 capre Agitu ha scoperto pascoli abbandonati in diverse valli trentine, li ha rivitalizzati con la presenza degli animali che li ripulivano dall’erba in eccesso ed è riuscita a farsi apprezzare dall’intera comunità che l’ha accolta e integrata.
“All’inizio non è stato facile far accettare la mia idea: una ragazza, nera, che voleva avviare un’attività agricola; un’idea ben distante dalla tradizione per cui erano solitamente i figli dei contadini a creare nuove attività”.
Ma Agitu non si è persa d’animo e ha dimostrato le sue qualità. Inizialmente si manteneva lavorando in un bar, ma frequentava corsi per imparare ad allevare le capre e a produrre dei prodotti di qualità.
Agitu, “l’etiope con la pastorizia nel sangue”, racconta di aver scoperto due anni fa Valle San Felice, una frazione di Mori, in Val di Gresta. “Qui il Comune mi ha concesso in affitto un appezzamento destinato agli usi civici, gli animali pascolano, concimano la terra, danno un latte di altissima qualità e io vedo i miei sforzi finalmente premiati”.
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