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“Ho venduto casa a 550mila euro, ora l’acquirente me ne chiede indietro 350mila e per lo Stato è tutto legale”: il business dei piani di zona a Roma

Chi ha venduto una casa di edilizia agevolata in diritto di superficie, rischia di finire sul lastrico a causa di una legge che ha cambiato le carte in tavola e di una sentenza della Cassazione

Di Anna Ditta
Pubblicato il 27 Lug. 2018 alle 12:04 Aggiornato il 18 Apr. 2019 alle 08:53

ESCLUSIVO The Post Internazionale (TPI.it) – La nuova tragedia del ceto medio italiano ha a che fare con il diritto alla casa, ed è stata causata dall’incompetenza del legislatore: dei parlamentari, certo, ma soprattutto degli uffici tecnici che nel 2011 hanno dato il via libera all’introduzione di una norma che ha cambiato le carte in tavola, mettendo migliaia di persone a rischio di perdere la propria casa.

Il fenomeno, scoppiato nella Capitale a partire dal 2015, riguarda 400mila persone – un cittadino romano su 7 – ed è solo agli inizi. Solo dinanzi al tribunale di Roma, le cause su questo problema sono già 200 e sono in aumento.

Presto il problema si allargherà a macchia d’olio a tutto il territorio nazionale a meno che una nuova legge non intervenga a mettervi un argine.

Le persone coinvolte sono quelle che hanno venduto una casa di edilizia agevolata costruita in diritto di superficie, e lo hanno fatto a prezzo di mercato. Sostengono di aver agito in buona fede, perché il comune, i notai e i tribunali li avevano autorizzati a farlo.

Non potevano sapere che nel 2011 una legge con effetto retroattivo avrebbe cambiato tutto, e che una sentenza della Cassazione nel 2015 li avrebbe messi a rischio di dover risarcire l’acquirente della casa per somme fino a 400mila euro (qui una ricostruzione in parte differente, con il parere di alcuni avvocati e la replica degli acquirenti).

Il problema è che molti di loro quei soldi non li hanno più, perché li hanno usati per comprare la loro nuova e unica casa.

La storia di Davide

“Ma che siete tutti impazziti? Ho fatto quello che mi avete detto voi!”. Fino a qualche anno fa Davide Ciuccini era sicuro delle sue ragioni.

Prima di vendere la sua casa, costruita in edilizia agevolata e in diritto di superficie, aveva chiesto al comune di Roma se esistessero vincoli particolari cui doveva attenersi.

Dal Campidoglio è arrivato il via libera, senza vincoli di prezzo. Bastava che fossero trascorsi 5 anni dalla prima assegnazione.

Dopo essersi rivolto a un’agenzia immobiliare, Davide ha trovato un acquirente. Si sono recati insieme dal notaio di fiducia che non fatto una piega, tutto sembra essere regolare. La casa viene venduta al prezzo concordato.

Anni dopo, Davide riceve una lettera di messa in mora dall’acquirente. Chiede la restituzione di 250mila euro e gli interessi.

“Ovviamente questi soldi che mi chiedono non li ho. Con il denaro incassato dalla compravendita, ho a mia volta acquistato un nuovo appartamento come prima (e unica) casa”, racconta.

Per restituire i soldi dovrebbe vendere la sua nuova casa, oppure prendere un mutuo. Ma come mai si è arrivati a questo punto?

Il sogno di una casa per il ceto medio

Tutto è iniziato negli anni Sessanta e Settanta, quando il legislatore, per garantire il diritto all’abitazione previsto dalla Costituzione, ha creato una serie di istituti giuridici per garantire l’accesso alla casa anche ai ceti medi.

Non si parla quindi delle classi meno abbienti, tutelate dall’edilizia popolare, ma di edilizia convenzionata o agevolata.

In alcuni casi, lo Stato trasferiva a basso costo la proprietà di terreni su cui costruire, in altri casi forniva terreni a cooperative o società costruttrici in diritto di superficie per 99 anni, a un prezzo più basso, insieme a mutui per costruire a prezzi agevolati.

Queste abitazioni avrebbero dovuto essere vendute in prima vendita a un prezzo agevolato, chiamato prezzo massimo di cessione, a chi ne avesse i requisiti, secondo quanto risposto dalla legge quadro in materia (legge Bossetti Gatti n.865 del 1971) e dalle convenzioni stipulate dai singoli comuni.

Con il passare degli anni, questi istituti giuridici, già molto complessi, sono stati più volte rivisti dal legislatore.

“Nel tempo c’è stata una fortissima stratificazione legislativa”, spiega a TPI.it l’avvocato immobiliarista Marco Cesetti. “La materia è obiettivamente una delle più complesse che esistano”.

Negli anni, alcuni assegnatari di questi immobili hanno avuto l’esigenza o la volontà di vendere la casa.

Ma si sono posti una serie di problemi: il primo assegnatario può rivendere casa? Quando? A chi? A quali condizioni e, soprattutto, a quale prezzo?

“Tutto il sistema giuridico all’unisono, compresa la Cassazione, i notai, i comuni, gli intermediari immobiliari, gli istituti di credito, ha statuito che passati cinque anni dall’assegnazione si potesse vendere l’immobile a prezzo di mercato, a chiunque volesse acquistarlo. E così hanno fatto tutti quanti, dagli anni Novanta in poi”, spiega l’avvocato Cesetti.

Le colpe del legislatore e la sentenza della Cassazione

Nel 2011, in piena crisi politica ed economica e con lo spread che saliva, il governo ha dovuto adottare una serie di correttive per i tagli ai comuni decisi l’anno precedente. Tentando di fare cassa, ha introdotto, tra le varie cose, l’istituto dell’affrancazione (legge n. 106 del 2011).

“In sostanza, i proprietari di immobili concessi in diritto di superficie possono affrancare dal prezzo massimo di cessione il loro immobile, pagando una somma al comune che ha stipulato la convenzione, attraverso un atto pubblico”, spiega Cesetti.

In altre parole, per vendere l’immobile a un prezzo superiore a quello massimo di cessione, il proprietario deve versare un determinato importo (alcune migliaia di euro) al comune.

Ma se il legislatore impone di pagare l’affrancazione, vuol dire che il prezzo massimo di cessione non era venuto meno in automatico: l’immobile avrebbe dovuto essere venduto a un prezzo agevolato, e non a prezzo di mercato.

La prima sentenza a ricostruire il quadro legislativo proviene dalla decima sezione del Tribunale di Roma, ed è stata emessa da Maria Luisa Rossi, che oggi presiede quella sezione.

Nella sentenza si sottolinea che, se il legislatore ha introdotto l’affrancazione, vuol dire che punta a garantire il diritto di accesso alla prima casa ai ceti medi nel tempo.

Questo viene ritenuto un interesse generale pubblico, che prevale sull’interesse del privato. Per questo, la norma è ritenuta una norma imperativa.

Dopo la sentenza del tribunale di Roma, nel 2015 le Sezioni Unite della Cassazione emanano la sentenza n° 18135, che avalla questa interpretazione e la rende quella generalmente riconosciuta come corretta.

“Da qua succede il corto circuito del sistema giuridico“, dice l’avvocato Cesetti, “Perché tutti i contratti di compravendita di queste abitazioni stipulati in precedenza avevano violato una norma imperativa, che non è derogabile. Quindi, considerata anche la retroattività della legge, tutti questi negozi giuridici su diritto di superficie sono affetti da nullità parziale (virtuale) con riguardo alla clausola sul prezzo, che deve dunque essere sostituita con il prezzo corretto”.

In altre parole, un immobile venduto a prezzo di mercato a 400mila euro, avrebbe dovuto essere venduto a 100mila euro. Come è evidente, la differenza è notevole.

Chi ha pagato il primo prezzo invece del secondo, secondo il codice civile, ha dieci anni di tempo per chiedere la restituzione della differenza di 300mila euro, a titolo di indebito oggettivo.

Conseguenza: gli acquirenti hanno iniziato a chiedere indietro i soldi ai venditori.

“Praticamente un terzo di Roma è stata costruita in diritto di superficie”, spiega Cesetti, “ci sono 400mila cittadini potenzialmente coinvolti da questo problema. Molti lo sono già, altri lo saranno finché qualcuno non porrà rimedio”.

Il business delle restituzioni

Dopo la restituzione, gli acquirenti possono affrancare l’immobile pagando qualche migliaio di euro al comune, eliminando qualsiasi vincolo e vendendolo a prezzo di mercato, e quindi ottenendo un guadagno.

Anna D’Ambrosio, vice-presidente del comitato venditori 18135, fa un esempio concreto: lei ha venduto la sua casa a 550mila euro. Ora l’acquirente le chiede la restituzione di oltre 350mila euro*.

Secondo D’Ambrosio, l’acquirente può poi affrancare l’immobile pagando 25mila euro al comune (secondo il calcolo di un architetto incaricato dall’acquirente la cifra è di 42mila euro) e rivendere la casa a prezzo di mercato, intascando la differenza.

Mettendo in atto questa operazione – che sembra perfettamente legale – gli acquirenti danneggiano chi quella casa l’ha venduta in buona fede a un determinato prezzo. Un prezzo che anche loro anni prima avevano accettato.

“Questo a mio avviso è il paradosso giuridico più grave che si sia mai registrato nella storia della repubblica italiana”, sostiene Cesetti.

Secondo l’avvocato, questa problematica impatta sul principio di uguaglianza e sul diritto alla prima casa. “Gli assegnatari erano ceto medio e sono rimasti ceto medio, quindi se chiedi loro indietro tutti questi soldi non possono fare altro se non vendere la loro altra prima casa”, spiega.

“Questa è gente che davvero rischia di finire per strada, gente che la notte non dorme. Qualcuno ha anche minacciato il suicidio”.

Si potrebbe obiettare che anche i primi assegnatari, quando hanno acquistato l’immobile al prezzo massimo di cessione e poi lo hanno rivenduto a prezzo di mercato – per quanto in buona fede – abbiano avuto un arricchimento ingiusto.

“All’epoca i venditori hanno solo fatto quello che era previsto per legge”, dice l’avvocato. “La differenza è che oggi si sta utilizzando un espediente per rimescolare le carte che sono state date 10 o 20 anni fa”

“Per questo cortocircuito legislativo-giurisprudenziale venditori e acquirenti si stanno battendo, dopo che lo Stato – pur non volendo – ha messo gli uni contro gli altri. Oggi i venditori rischiano di essere danneggiati. All’epoca dell’acquisto, invece, nessuno ha danneggiato nessuno. È stato fatto tutto in modo lineare e con coscienza. Gli acquirenti allora acquistarono un immobile ad un prezzo che hanno liberamente accettato, nessuno li ha costretti, cioè hanno avuto la possibilità di scegliere liberamente”

“Oggi invece, per effetto di una legge successiva autorevolmente interpretata nel settembre 2015, i venditori si trovano costretti a dover restituire ingenti somme di danaro che lo Stato li aveva autorizzati ad incassare per la vendita del loro immobile, insomma si stanno creando delle fortissime tensioni sociali e se non si pone velocemente rimedio andremo a rovinare numerose famiglie e ad arricchire ingiustificatamente della altre”, sostiene l’avvocato.

Ci sono addirittura molte situazioni di persone che hanno comprato la casa in seconda battuta dal primo proprietario a prezzo di libero mercato, e l’hanno a loro volta rivenduta ad una terza persona sempre a prezzo di mercato: queste persone ora si trovano con una richiesta di risarcimento per la differenza del prezzo, senza tuttavia poter chiedere niente al primo proprietario perché ormai sono passati più di 10 anni e l’azione di indebito si è prescritta.

Il Comitato Venditori 18135

A Roma i venditori che si sono ritrovati coinvolti dalla sentenza 18135 si sono riuniti in un comitato. Sono 98 persone a cui complessivamente viene chiesto di restituire una somma pari a 17 milioni. In media, sono quasi 175mila euro a testa.

“È vero che c’era questo prezzo imposto, ma nessuno ne era a conoscenza”, spiega a TPI.it Anna D’Ambrosio, vice-presidente del comitato. “Nessuno ce ne ha parlato, nessuno ci ha avvisato”.

“Le nostre vendite sono state avallate dalle banche che hanno concesso mutui più alti del prezzo massimo di cessione e dai notai che non hanno fatto le dovute ricerche”, spiega D’Ambrosio. “L’80 per cento di noi, inoltre, ha in mano un nulla osta del comune di Roma dove si sottolinea che non c’è alcun tipo di vincolo”.

“Siamo stati ingannati da un sistema superficiale, che non ha aperto gli occhi a chi stava commettendo per tanti anni un illecito involontario”, aggiunge. “La questione è stata gestita male dall’inizio, e noi ci siamo rimasti in mezzo”.

“Perché adesso non ci legittimano ad affrancare, così possiamo tornare in una posizione di regolarità? Siamo tutti disponibili a farlo”.

“Siamo disperati, veramente disperati. Ci sono famiglie con bambini. Io ho dentro la causa mia madre, che ha 80 anni, e cerco di filtrarle tutto. Molti di noi hanno ricomprato casa addirittura prendendo il mutuo. Si immagini una casa pignorata col mutuo sopra”.

Come risolvere la situazione

Sono due le vie possibili per risolvere il problema, dal punto di vista dei venditori: una è quella dell’incostituzionalità della legge del 2011 sull’affrancazione, laddove non prevede che l’affrancazione possa essere fatta dagli uni come dagli altri”. L’altra è un intervento legislativo che, secondo l’avvocato Cesetti, potrebbe essere così articolato.

“Il legislatore potrebbe intervenire con tre punti: sancire il diritto di affrancare sia per gli acquirenti sia per i venditori; disporre che il costo dell’affrancazione debba essere equamente ripartito tra le parti; chiarire espressamente che, effettuata l’affrancazione, nessuna delle parti possa agire per la restituzione di indebiti o risarcimenti danni di alcun genere, salvo il regolamento dei rapporti interni tra le parti circa il costo dell’affrancazione”.

Esistono anche interpretazioni giurisprudenziali che vanno oltre quella delle Sezioni Unite, che rimane quella generale a cui i giudici devono attenersi per la funzione di nomofiliachia della Corte di Cassazione.

Ad esempio, c’è stata un’ordinanza del tribunale di Roma che ha identificato in questo corto circuito un abuso di diritto.

Se l’acquirente, anziché chiedere l’affrancazione, chiede la restituzione della differenza nel prezzo della compravendita, secondo un giudice romano sta abusando del suo diritto. Ma quest’interpretazione ad oggi è rimasta unica.

Cesetti ha anche una sua interpretazione personale, che si basa sul concetto giuridico del “legittimo affidamento”. Secondo questa interpretazione, se qualcuno agisce consapevolmente e rispettando le regole, a distanza di tempo, laddove cambino le regole, non si può tornare indietro sui propri passi per semplice interesse personale, perché questo lederebbe il legittimo affidamento che si è consolidato nel tempo.

“Il concetto di legittimo affidamento è stato fatto proprio dall’Unione europea e anche dal nostro ordinamento, con varie sentenze della Cassazione e della Corte Costituzionale”, spiega l’avvocato.

“Ci sono molte persone che si rendono conto del tutto, e quindi non chiedono la differenza sul prezzo. Chiedono di risolvere la questione dell’affrancazione”.

“Non si tratta di una battaglia di venditori contro acquirenti. C’è un corto circuito che purtroppo tanti stanno cercando di strumentalizzare per ottenere un guadagno ingiustificato”.

* Una versione precedente di questo articolo riportava che la compravendita era avvenuta a 500mila euro e che l’acquirente ne chiede indietro 378mila (arrotondati nel titolo a 380mila). A seguito di alcune precisazioni, le cifre sono state corrette.

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