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“Io medico specializzando vi spiego perché il numero chiuso a medicina non va abolito”

Credit: Getty Images

I medici non mancano, a mancare sono gli specialisti: il problema è il numero troppo basso di borse di studio di specializzazione rispetto al numero di laureati in medicina che ogni anno escono dalle università

Di Cristiana Mastronicola
Pubblicato il 18 Ott. 2018 alle 10:44 Aggiornato il 18 Ott. 2018 alle 13:54

“Far passare il concetto che in Italia mancano medici e quindi l’abolizione del numero chiuso per l’ingresso alla facoltà di medicina ne formerebbe di più è falso, perché i medici non mancano, mancano gli specialisti”.

La definisce una mossa populista, Mario Mezzapesa, quella del governo di annunciare la fine dell’era dei test di ingresso per le facoltà mediche – salvo poi fare un mezzo passo indietro garantendo l’aumento del numero di accessi e non l’abolizione totale del numero chiuso.

31 anni, pugliese, Mario Mezzapesa è medico specializzando in Anestesia, rianimazione, terapia intensiva e del dolore e ha le idee chiare su come funzionano le cose tra i corridoi di una facoltà di medicina. Per sei anni ha studiato a La Sapienza di Roma, poi il suo percorso è continuato con l’accesso alla specializzazione, sempre a Roma. È uno di quelli che ce l’hanno fatta, che hanno passato il test di ingresso prima e lo scoglio dell’esame di specializzazione poi. Ed è quello, come spiega bene lui, il nodo della questione.

“In Italia non mancano i medici laureati, mancano figure specialistiche”, dice Mezzapesa. Per la legislazione italiana, per poter lavorare all’interno del sistema sanitario nazionale, sia pubblico che privato convenzionato, è necessaria la specializzazione o, in alternativa, aver completato la scuola di Medicina generale.

“Attualmente le università italiane sfornano un numero congruo di medici laureati che, però, non hanno possibilità di accedere alla formazione post laurea, quella cioè che ti permette di lavorare e, come professionista, di essere competitivo a livello remunerativo”.

Ma sono tanti, troppi i medici che restano fuori dal sistema. Esclusi dalle borse di specializzazione, si trovano costretti ad adattarsi agli unici lavori che sono loro permessi, come le continuità di sostituzione dei medici di famiglia, le continuità assistenziali o gli eventi sportivi. Poco male, si lavora lo stesso, se non fosse che la competizione è talmente alta che si assiste a un impressionante quanto ingiusto ribasso dei prezzi di mercato.

La verità è che i medici nel nostro paese non mancano affatto. Il problema è che non possono concretamente lavorare se non accedendo alla specializzazione. Allora affrontare il problema significa agire sul fronte dell’accesso alla formazione post laurea, aumentare le borse di studio messe a bando per la specializzaione.

“Quest’anno per 6mila posti nelle scuole di specializzazione, si sono presentati in 16mila”, spiega ancora Mezzapesa. 10mila medici laureati sono stati tagliati fuori. Di questi circa 2mila accederanno alla scuola di Medicina generale, gli altri 8mila rimarranno “nel limbo della formazione post laurea”.

Gli ingranaggi si inceppano proprio qui. “Andare ora ad abolire il numero chiuso a medicina – seppur con tutti i limiti di cui si può discutere – senza di pari passo andare a garantire a tutti quei medici che si andranno a laureare una formazione post laurea significa spendere risorse inutilmente”.

Ogni studente di medicina, per tutto il suo percorso universitario, costa allo Stato italiano circa 150mila euro. “Tu, Stato, spendi tutti questi soldi per immettere sul mercato del lavoro un disoccupato”, aggiunge. “Senza specializzazione, un medico laureato non può mettere le sue competenze acquisite nella formazione a disposizione del sistema sanitario nazionale e della cura dei pazienti”.

Ma allora perché non scegliere di intervenire sull’aumento del numero delle borse di studio di specializzazione? È qui, spiega ancora il dottor Mezzapesa, l’altro “grosso inganno” di questo governo e di quelli precedenti. Aprire a tutti la facoltà di medicina, infatti, per le università è un buon ritorno economico, per le tasse che ogni singolo studente è chiamato a versare. “Invece le borse di specializzazione sono finanziate dallo Stato”: per i cinque anni di formazione post laurea, lo Stato spende 200mila euro a medico.

“È una manovra populista: si aprono le facoltà di medicina perché quello fa incassare, ma se tu, Stato, non sei in grado di trovare i fondi per finanziare le borse di specializzazione, hai creato dei disoccupati, hai illuso le persone di poter intraprendere un percorso di formazione che non possono portare a termine”.

Lo Stato e le regioni non mettono abbastanza fondi a disposizione. Il primo passo da fare sarebbe quello di equiparare il numero di borse di specializzazione e di Medicina generale a quello di laureati ogni anno, in modo da garantire a tutti di poter trovare il loro percorso di formazione post laurea.

Il rischio – reale – è che dopo sei anni di studio e sacrificio ci si ritrovi con in mano un titolo che non vale nulla. “O, peggio ancora, se voglio dare un valore a questo titolo, devo metterlo in valigia e andarmene dall’Italia”, spiega ancora Mezzapesa.

“Stanno affrontando la questione dal punto di vista sbagliato, è questo quello che sfugge a questo governo, non so se per malizia – cioè se lo sanno e fanno finta di non sapere – o per ignoranza del problema”.

Si può discutere di una abolizione del test di ingresso o di uno sbarramento al secondo anno, assicura Mezzapesa, ma quello che è indispensabile è arrivarci ripensando profondamente le infrastrutture e il modo di insegnamento.

“Nella facoltà di medicina è imprescindibile la frequenza obbligatoria. Esami come istologia, anatomia prevedono laboratori che sono parte integrante della corretta formazione. Non è pensabile andare a fare un esame di istologia senza aver mai visto un vetrino, ad esempio”, spiega ancora.

“L’università italiana, dappertutto, attualmente fa già grossa difficoltà a organizzare laboratori efficaci per il numero attuale di studenti di medicina, figuriamoci garantire un livello adeguato di preparazione a 70-80mila studenti spalmati su tutto il territorio nazionale. E molte di queste materie sono al primo anno. Quindi parlare di sbarramento al secondo anno significa far sì che il primo anno sia efficace nella formazione di tutti. Non puoi, con le attuali infrastrutture di cui dispongono le facoltà mediche italiane, garantire a tutti lo stesso livello di preparazione”.

Il problema quindi non starebbe solo al termine della prima fase degli studi, ma anche durante i sei anni di formazione di base. Il principio non è sbagliato, spiega ancora: “Prima però vengono le infrastrutture, altrimenti alla fine del primo anno ci sarà una disomogeneità di formazione non legata all’attitudine individuale, ma a delle barriere che impediscono anche ai più volenterosi di prepararsi”.

Così come sarebbe sbagliato basare lo sbarramento sulla media degli esami: “Quelli orali – la maggior parte oggi – sono suscettibili a varie interpretazioni. Bisognerebbe omogeneizzare gli esami in tutte le facoltà mediche, renderli scritti e il più asettici possibile rispetto al giudizio di una persona che può essere influenzato da fattori esterni”.

Il rischio, insomma, è che venga fuori “una porcheria di riforma: passa chi è raccomandato e consociuto, rispetto a chi è capace e volenteroso. E se si deve scegliere tra il raccomandato e il bravo, purtroppo – e questa è storia di tutti i giorni – il raccomandato ha sempre una marcia in più. Come diceva un mio professore di genetica, ‘Se siete bravi e studiate ce la farete comunque, ma se siete pure raccomandati è meglio'”.

Abolire il numero chiuso non è impossibile, né sbagliato a prescindere. La questione di classe non c’entra niente. A contare è solo la formazione che, ad oggi, sarebbe monca e il posto di lavoro di domani, pure quello di fatto monco. Per arrivare pronti a quello step è necessario un lavoro di preparazione. Strutturale, sì, ma anche e soprattutto culturale.

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