“È chiaro che ci stanno preparando al secondo lockdown: è per questo che se ne continua a parlare”. Così un medico milanese, che vuole rimanere anonimo, sfoga la sua frustrazione: “Io le do appuntamento tra un mese, ma vedrà che dovremo rinviarlo perché saremo chiusi. Purtroppo continuano a inseguire il virus, che invece è tutt’altro che imprevedibile. Basti pensare all’influenza Spagnola, che di ondate ne ha avute quattro: la seconda più forte della prima e le successive due di minore entità. Scommettiamo che anche con il Covid-19 finirà così?”.
La sensazione di una svolta imminente nelle misure di prevenzione circola ormai da giorni in Lombardia. Non solo la drammatica situazione di Milano, ma anche la curva dei contagi a Varese, Monza e Brianza e diversi altri centri suscita forte preoccupazione. Molti pensano che un nuovo lockdown sia ormai nell’aria, sebbene siano ancora da chiarire i suoi confini, geografici, temporali e qualitativi.
Sul piano economico, l’obiettivo è salvaguardare la stagione natalizia, consentendo così ai commercianti – ma anche ai normali cittadini – di chiudere in serenità un anno davvero orribile. Chiudere i battenti oggi per riaprirli in occasione delle Feste potrebbe anche essere una strategia, ma di corto respiro. Come nei giorni scorsi è stato spiegato a TPI da Edgardo Valerio, ex direttore della UDC Sanità Pubblica e del Dipartimento di Prevenzione dell’ASL Milano 1, un secondo lockdown certamente farebbe scendere i contagi, ma una volta riaperte le attività ci troveremmo al punto di partenza, con la prospettiva di un nuovo lockdown intorno a febbraio.
Un ulteriore sacrificio economico, comunque durissimo, sarebbe anche sopportabile, se servisse davvero a migliorare la salute pubblica, ma per farlo bisognerebbe nel contempo intervenire su due aspetti sui quali siamo in evidente difficoltà: la sanità territoriale e il trasporto pubblico.
A confermare questo punto di vista è Sergio Marsicano, psicologo e psicoterapeuta che ha lavorato per molti anni all’Ospedale San Carlo di Milano, nel reparto di oncologia, e ora fa parte della rete “Milano 2030”: “Il Covid-19 ha messo in luce tutte le carenze strutturali del sistema, che si sono determinate nell’arco di decenni”, spiega.
“I due punti critici sono la sanità territoriale e il trasporto pubblico, ma su entrambi è veramente molto difficile rimettersi in riga. Prendiamo ad esempio i mezzi: per tutti questi anni sono stati sacrificati, a tutto vantaggio dell’industria dell’automobile a benzina, e nella situazione attuale ci vorrebbero mesi per acquistare nuovi mezzi e potenziare la rete, in modo che regga anche alla pressione delle ore di punta. Lo stesso vale per la sanità: decenni di numero chiuso nelle università sono serviti per non avere un esercito di giovani medici che reclamavano un posto di lavoro, ma nel momento dell’emergenza questi errori li paghi. Oggi non ci sono nemmeno le risorse umane da assumere per potenziare i servizi e questo ha ripercussioni di medio/lungo termine”, continua Marsicano.
“La presidente della Commissione europea Ursula Von der Leyen ieri ha annunciato che le prime dosi del vaccino contro il Covid-19 saranno pronte ad aprile, ma poi ci vorrà molto tempo prima che siano effettivamente disponibili per i cittadini. Oltre alle tempistiche richieste dalla produzione, bisognerà trovare i luoghi e il personale adatto per somministrare il vaccino: questo significa che, nella migliore delle ipotesi, le persone nella fascia 15/60 anni non potranno essere vaccinate prima dell’estate 2021. Dovremo quindi tenere duro fino ad allora, magari con dei minilockdown localizzati. Ma quelli generali servono a poco: se ne facciamo un altro adesso, certamente a Natale potremo riaprire i negozi e fare contenti i commercianti, ma poi è molto probabile che a febbraio/marzo ci si trovi nella stessa situazione di oggi. Se non peggiore”, conclude.
Paola Pedrini, segretaria lombardia della Fimmg (Federazione Italiana dei Medici di Medicina Generale), conferma: “Sicuramente non può essere una sola misura, come il lockdown, a risolvere il problema: ci vuole un insieme di interventi. Inoltre c’è un ulteriore elemento da tenere in considerazione: Milano è una città che vive di pendolari, quindi non ha senso parlare di lockdown, ma ci vorrebbe una zona rossa. Mi pare difficile che si possa prendere una decisione del genere. Quello che possiamo fare è continuare col tracciamento, per quanto ci siano delle grosse difficoltà, e con i tamponi, sebbene i ritardi siano fortissimi, anche fuori Milano”.
Gli esperti del settore sono quindi concordi, ma ben più sorprendente è che lo siano anche gli esponenti politici di due parti contrapposte, sebbene dai rispettivi punti di vista. Pietro Bussolati, combattivo consigliere regionale del Pd, nonché membro della segreteria nazionale di Nicola Zingaretti, sostiene: “Non possiamo parlare solo di nuove restrizioni, che ovviamente saranno inevitabili, se la curva non si appiattisce come tutti speriamo. Se non si potenziano la sanità territoriale, l’assistenza domiciliare, i luoghi di isolamento per i contagiati, tutti gli sforzi si riveleranno vani. Valeva a marzo e vale ancora oggi. Fontana e Gallera hanno una responsabilità enorme”.
Alessandro De Chirico, consigliere comunale di Forza Italia a Milano e da tempo vicino all’assessore Giulio Gallera, osserva: “Chiudere e basta, senza prendere altre misure, non è sufficiente. Lo abbiamo già visto con il primo lockdown. In Consiglio Comunale mi sono battuto perché ci fossero più controlli sui mezzi pubblici e nelle zone della movida, dove tanti ragazzi si sono infettati e poi hanno diffuso a loro volta il virus. Tuttavia, mi rendo perfettamente conto che il problema non è di facile soluzione: non solo ci vuole tempo per potenziare le flotte, anche coinvolgendo gli operatori privati, ma non si può nemmeno militarizzare la città per contrastare la vita mondana”.
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