Perché in Lombardia l’emergenza-Coronavirus è ancora così lontana dall’essere risolta? Perché il numero di morti è così elevato? Sette pilastri del settore sociosanitario presentano alla Regione un dossier articolato in sette punti critici e propongono di istituire un tavolo di lavoro comune.
Il tema sta caratterizzando questa fase dello scontro politico ed ha assunto rilevanza nazionale, come dimostra la sempre più frequente presenza di Matteo Salvini e dei suoi comunicatori negli uffici della Regione. Una presenza, peraltro, che è stata stigmatizzata anche da due assessori della Giunta-Sala, Paolo Limonta e Pierfrancesco Maran, i quali hanno sottolineato l’inopportunità di mescolare ruoli politici e istituzionali.
Quando la tensione è così elevata, si rischia che la discussione si avviti in una sorta di derby, nel quale ognuno evidenzia gli argomenti più utili per la propria parte politica, a discapito dell’interesse dei cittadini, che ovviamente consiste nell’adozione delle misure più adatte per contenere l’epidemia.
E allora proviamo ad uscire dall’agone politico per ascoltare il parere tecnico dei professionisti del settore sociosanitario. Un elenco molto eloquente di ciò che non sta funzionando e dei correttivi da adottare è contenuto nella lettera indirizzata a Fontana e Gallera da parte di una rete formata da sette rappresentanze degli enti gestori del settore, che chiedono di istituire un tavolo di lavoro comune.
Si tratta di Uneba (Unione Nazionale Istituzioni e Iniziative di Assistenza Sociale), Arlea (network regionale che rappresenta e tutela gli erogatori socio sanitari), ACI Welfare (Associazione delle Cooperative Italiane), AGeSPI (Associazione Gestori Servizi sociosanitari e cure Post Intensive), ANASTE (Associazione Nazionale Strutture Terza Età), ARIS (Associazione Religiosa Istituti Socio Sanitari) e Anffas (Associazione Nazionale Famiglie di Persone con Disabilità Intellettiva e/o Relazionale). Senza dubbio, una rappresentanza più che autorevole del settore, il cui parere non può essere considerato parziale e va anzi tenuto in debita considerazione.
Il documento reca ad oggetto “Criticità rilevate dagli Enti sociosanitari a seguito d’infezione COVID 19 e richiesta costituzione tavolo di lavoro comune” e dalla sua lettura vi si ricava una fotografia decisamente poco rassicurante della situazione.
I firmatari chiedono chiarezza, ricordando che dall’inizio dell’emergenza “il Governo e le Regioni hanno emanato e diffuso atti diversi e numerosi, all’interno dei quali sono state fornite indicazioni operative per gestire le conseguenze dell’evolversi della situazione sanitaria. Regione Lombardia, per tramite delle AA.TT.SS., ha inviato le proprie indicazioni/linee guida ai gestori presenti sul territorio. Si deve purtroppo costatare che, in queste otto settimane, abbiamo assistito al moltiplicarsi di mail, note, circolari, linee guida, a volte contrastanti tra di loro e/o con le disposizioni del governo centrale o di ritorno su precedenti decisioni o ad interim”.
La confusione, secondo i diretti interessati, “non ha consentito agli Enti di mettere bene a fuoco la situazione e di garantire piena razionalità e permanente continuità nei modi e nei tempi di vigilanza, ad esempio per l’esecuzione di tamponi, né di creare tutti i necessari presupposti al lavoro in sicurezza e a tutela della salute di ospiti e operatori”.
“Permangono ad oggi ancora troppe questioni aperte che richiedono un intervento prioritario da parte di Regione Lombardia, non più procrastinabile, che deve essere incentrato sulla reale congiuntura in atto, purché espressa da chi la vive in prima linea piuttosto che su interpretazioni a tavolino o finanche su articoli e servizi dei media”. In buona sostenza, si chiede – comprensibilmente – di abbandonare logiche solo politiche e di dare ascolto a chi ha una solida conoscenza professionale del tema.
Il primo è rappresentato da tamponi e indagini sierologiche: “Fino ad oggi la maggior parte delle Unità di Offerta Sociosanitarie per anziani (RSA), persone con disabilità (RSD e CSS), così come tutte le altre tipologie di strutture sociosanitarie hanno dovuto procedere in pressoché totale assenza di un reale piano pandemico, di stretta pertinenza governativa in prima istanza e secondariamente dei governi regionali, e in pressoché totale autogestione, nonostante ripetute sollecitazioni a ricevere maggiore chiarezza e linee di omogeneità territoriale”, si legge nel documento.
“Le strutture residenziali sociosanitarie hanno natura extra-ospedaliera e territoriale e sono ‘destinate ad accogliere persone anziane non autosufficienti, alle quali garantiscono interventi volti a migliorarne i livelli di autonomia, a promuoverne il benessere, a prevenire e curare le malattie croniche’ (dal sito di Regione Lombardia), ove il curare fa riferimento ai soli criteri di base propri di una medicina generalista”. Questo, viene evidenziato, è in contrasto con il fatto che “le attività di profilassi delle malattie infettive e di tutela degli ambienti di lavoro, in particolare in caso di infezioni non endemiche e quando si esula dall’adozione di precauzioni standard, sono in primo luogo di competenza dei Dipartimenti di Prevenzione delle ATS”.
Richiamando la circolare del Ministero della salute dello scorso 3 aprile, gli Enti richiedono “che Regione Lombardia, per il tramite dei Dipartimenti di prevenzione delle AA.TT.SS., si faccia carico, come di sua competenza, della sorveglianza sanitaria di ospiti e operatori, provvedendo al più presto a: 1) effettuazione di tamponi e test sierologici a tutti gli ospiti e a tutti gli operatori di RSA e RSD, così come agli operatori di tutte le altre tipologie di strutture sociosanitarie, compresi quelli in quarantena e che potrebbero tornare a lavorare, omogeneizzando le comunicazioni indirizzate agli Enti e limitandosi a chiedere loro la trasmissione dei nominativi di ospiti e operatori da sottoporre ai test; 2) effettuare tali indagini con costi a carico del SSN, e non delle singole strutture, e con personale inviato da Regione adeguatamente formato, competente ed esperto”.
In maniera molto diretta, le rappresentanze del settore sociosanitario aggiungono: “Qualora Regione Lombardia non si assumesse immediatamente tali oneri, saremo costretti a rivolgerci alle autorità competenti per tutelare la salute e la vita di operatori e ospiti, nonché gli Enti gestori, da successive ripercussioni di carattere civilistico e penalistico alle quali il vostro diniego o il vostro silenzio ci potrebbe esporre”.
Il secondo punto riguarda l’applicazione della Delibera della Giunta lombarda 3018/2020, dello scorso 30 marzo, la quale prevede che “le reti clinico-assistenziali e organizzative di malattie infettive, pneumologia, terapia del dolore e cure palliative sono attivate anche per il tramite delle ATS a fornire supporto alle RSA e RSD”.
Questa indicazione sarebbe però rimasta sulla carta: “nei fatti ad oggi non si evidenzia il concretizzarsi di tale supporto e si lasciano scoperte le strutture, soprattutto quelle di piccole dimensioni, impedendo nei fatti il corretto approccio clinico e assistenziale verso l’utente”, si legge nel documento. Oltretutto, si pone un tema piuttosto delicato: “Va quindi ribadito, con grande chiarezza, che non solo gli ospiti COVID+, ma anche gli ospiti ‘sospetti COVID’ sono pazienti acuti o comunque pre-acuti. Di tale orientamento è l’ultima circolare del Ministero della Salute che intende il caso sospetto COVID-19 come contagioso”.
“In altre parole”, proseguono gli Enti, “le RSA e le RSD dovrebbero, ai primi sintomi di patologia acuta, provvedere all’invio negli ospedali degli ospiti attraverso corsie preferenziali e dedicate. Se si ritiene di trovarsi in un periodo di difficoltà generalizzata per cui non è possibile farlo, ne prendiamo atto, diamo la nostra disponibilità entro limiti da concordare insieme, ma certamente non è accettabile che ci vengano attribuite responsabilità a riguardo”.
Il terzo punto riguarda l’approvvigionamento dei DPI. Pur riconoscendo che l’epidemia ha preso tutti di sorpresa, gli Enti scrivono che “il modo di agire di Regione Lombardia ha fatto emergere le vulnerabilità di un sistema che ancora non considera in modo appropriato i bisogni delle diverse fragilità. La gestione dei casi COVID-19, oltre ad un approccio sanitario multidisciplinare, necessita anche di una visione sociosanitaria locale, esattamente come viene ribadito dalla Legge Regionale 23/2015 sulla presa in carico delle cronicità e delle fragilità. Cosicché ne venga rimarcata l’importanza di avere a disposizione tutta una serie di DPI, da fornire in larga scala non ai soli operatori della sanità di emergenza, al fine di poter accudire i malati in sicurezza”.
“Oggi tutte le RSA, le RSD e le CSS, così come tutte le altre tipologie di strutture sociosanitarie, necessitano per la loro attività di grandi quantitativi di DPI. Su 61.000 posti letto regionali e con 30.000 operatori residui, questo vuol dire almeno 150.000 pezzi per turno di lavoro, 450.000 al giorno, 15.000.000 al mese. È indispensabile un piano straordinario di acquisizione e distribuzione alle strutture sociosanitarie che permetta di superare questa fase ma anche di gestire il prosieguo dell’emergenza, per garantire la necessaria sicurezza a strutture e operatori. Le RSA e le RSD devono costituire la prima priorità della Protezione civile”.
Il quarto tema è la gestione del personale e la sua organizzazione. Il documento segnala che, oltre a molti operatori contagiati, ci sono anche numerose assenze dovuta alla paura del contagio stesso, con lavoratori che arrivano anche a dimettersi. “Tutte le strutture sociosanitarie sono in gravissima difficoltà. La proporzione di operatori in servizio, nelle sole RSA, è ridotta al 40-50% e per altre strutture anche a meno. Analoga situazione nelle RSD. Complessivamente, si tratta di 25-30.000 operatori (medici, infermieri, ASA/OSS, e altre figure professionali) oggi assenti nella sola rete per anziani e persone con disabilità”.
Gli Enti chiedono che “gli organi istituzionali assumano rapidamente il governo di questa criticità, avendone un’immagine chiara e puntuale e intervenendo con misure straordinarie, quali interventi di sanificazione degli ambienti, invio di equipe di sostegno tecnico nella definizione dei piani di isolamento, invio di personale sanitario e di specialisti, trasferimento in ospedale dei pazienti più complessi”.
Non sta funzionando nemmeno la “Centrale Unica Trasferimenti”, istituita dalla Regione per gestire le dimissioni dalle terapie intensive e quindi liberare posti letto. E’ questo il quinto elemento del dossier: “Non ha mai funzionato perfettamente e tutt’ora non è a regime: non tutti gli Ospedali si sono registrati e chi lo ha fatto, spesso, in fase di dimissione non effettua il tampone, necessario per l’invio in sicurezza in una RSA o RSD”.
“Per quanto riguarda la Centrale Unica e il portale Priamo, segnaliamo diversi episodi in cui si sono inviati in struttura ospiti COVID- (e come tali sono stati accettati dalle residenze) senonché immediatamente si sono rivelati COVID+, senza che poi le AA.TT.SS provvedessero alla necessaria ospedalizzazione”.
Il sesto tema riguarda l’assistenza domiciliare: “Si richiede l’attivazione di misure omogenee sull’intero territorio lombardo e sulle AA.TT.SS. Si stanno registrando comportamenti diversi tra ATS che forniscono presidi di sicurezza per il lavoro a domicilio ai gestori mentre altre non li forniscono (o un kit iniziale per 2-3 giorni), lasciando poi i gestori ad andare sul mercato da soli per reperire le dotazioni a prezzi eccessivi”. Per gli Enti sociosanitari, “manca una regia domiciliare a carattere territoriale”.
Il settimo punto è anche il più delicato, vista l’intenzione della Regione Lombardia di passare alla “fase 2” il prossimo 4 maggio. Sulla riapertura il documento afferma che “al fine di evitare ritardi e nuove problematiche organizzative, è opportuno che Regione pensi fin da subito, di comune accordo con i gestori e in coerenza con le circolari del Ministero della Salute, alle modalità di gestione della fase 2 anche per le RSA e RSD facendo tesoro dell’esperienza accumulata nella gestione del rischio clinico e della sicurezza del luogo di lavoro”.
“Si deve pensare ad un’apertura molto cauta, ma necessaria, per ridurre stato d’ansia degli ospiti e anche dei familiari”.
Non secondo la Fimmg (Federazione italiana medici di medicina generale) Lombardia, la cui segretaria Paola Pedrini esprime un giudizio molto duro: “Rileviamo l’assoluta inconsistenza dei contenuti del documento sulla ‘fase 2’, di recente approvato dal Consiglio regionale della Lombardia, riguardo alle proposte di riorganizzazione del sistema sanitario, che altro non fanno che riproporre l’esistente, lasciando di fatto immutate le criticità risultate evidenti, dolorosamente, nella gestione di questa pandemia”.
“Abbiamo preso atto, con stupore, del documento. Nella parte introduttiva leggiamo: ‘La Risoluzione impegna il presidente e la Giunta regionale a farsi portavoce presso il Governo ed in ogni sede istituzionale… affinché sia concessa una maggiore autonomia nel coordinamento dei medici di medicina generale e pediatri di libera scelta, per ricondurli a tutti gli effetti quali dipendenti del sistema sanitario regionale. Lo stupore aumenta leggendo la parte successiva del documento che, smentendo sostanzialmente l’affermazione precedente, per i medici di famiglia, si fa riferimento all’ordinamento attuale, quello cioè di liberi professionisti convenzionati”.
“Registriamo inoltre con dispiacere l’incapacità di analisi della situazione e soprattutto l’assenza di un’analisi degli errori – osserva Pedrini – sempre doverosa da parte di chi ha la responsabilità e l’onere di gestire un’organizzazione complessa, soprattutto in corso di eventi catastrofici. Un evento catastrofico spesso rende inevitabili gli errori, tutti lo sappiamo, ma gli errori devono essere riconosciuti, vanno corretti, non vanno nascosti”.