Rimaflow si reinventa con le mascherine, ma la Regione Lombardia boccia il primo prototipo
Tra le tante aziende e realtà artigianali che hanno saputo convertire la propria produzione per fare fronte al bisogno di mascherine di protezione dal Coronavirus, non poteva certo mancare Rimaflow, che ha proprio nella resilienza il suo elemento fondativo. La sua esperienza nasce dalle ceneri della Maflow di Trezzano sul Naviglio (Milano), azienda chiusa definitivamente nel dicembre 2012, dopo una fase di licenziamenti e scontri sindacali.
Gli ex dipendenti hanno trovato la forza di reagire e, nel pieno della crisi economica globale, hanno recuperato la fabbrica, riconvertendola dal settore automotive a quello del riciclo di apparecchiature elettriche ed elettroniche. Un caso virtuoso di rigenerazione, nella scia del “workers buyout”, che ha attirato molta attenzione per via della sua specificità.
Con l’esplosione della pandemia e la carenza di DPI in Lombardia, Rimaflow ha dato ulteriore prova di eclettismo, convertendosi alla produzione di mascherine. Oggi, però, è arrivata la doccia fredda: “La Regione Lombardia, pur ringraziandoci per il nostro impegno, ci ha comunicato che il primo prototipo di mascherina facciale ad uso civile testato dal Politecnico di Milano è risultato inidoneo. Purtroppo il materiale da noi lavorato, che in un primo momento sembrava avere le giuste caratteristiche, è risultato carente di alcuni requisiti alla prova microscopica delle fibre”.
“Di conseguenza, per la sicurezza di tutti/e, fin quando non ci perverranno i risultati del secondo prototipo, non distribuiremo quelle poche centinaia di mascherine che avevamo realizzato per mettere a punto la prima fase organizzativa della produzione”, spiegano i lavoratori in una nota.
Il loro messaggio contiene anche un richiamo all’attenzione negli acquisti, sottolineando un aspetto che non tutti conoscono: “Quando comprate una mascherina, consigliamo di verificare l’autorizzazione anche se prodotte in deroga alle normative vigenti. Infatti le circolari ministeriali, data l’emergenza e la carenza di dispositivi di protezione, prevedono la produzione di mascherine ad uso civile sulla base di determinate autocertificazioni da parte di chi le produce e dell’assunzione di responsabilità a non arrecare danno, senza passare dagli esami di laboratorio e relative autorizzazioni degli enti preposti, come invece abbiamo fatto noi. Non a caso circolano tante mascherine non idonee dal punto di vista sanitario”.
Da un punto di vista tecnico, Rimaflow spiega: “La problematicità della produzione di mascherine risiede nella scarsa disponibilità, in Italia, di Tessuto Non Tessuto (TNT) prodotto con tecnologia meltblown (da utilizzarsi per lo strato filtrante della mascherina) e quindi vengono proposti materiali similari che se a prima vista sembrano idonei poi invece, alle prove tecniche di laboratori specializzati, possono risultare non adatti, come nel caso del nostro primo prototipo”.
“Tuttavia, pur rimanendo in attesa del responso relativo al secondo prototipo di mascherina, già consegnato al Politecnico, ci stiamo dando da fare per stabilire ulteriori contatti per la ricerca di materiali e aziende che possano essere utili al nostro progetto di lavoro solidale. Allo scopo, viste le difficoltà a reperire materiale meltblown, facciamo appello a segnalarci società che lo producono o che possano anche in parte donarlo”. L’opzione della resa, ovviamente, è esclusa. Nata dal desiderio di resistere, Rimaflow non intende rinunciare proprio adesso a giocarsi tutte le proprie carte.
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