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Esclusivo TPI – Diario di un salvataggio sulla rotta migratoria più letale del mondo

Credit: Juliette Garms / MSF

Dall’inizio del 2024 quasi 900 persone sono morte o disperse nel Mediterraneo centrale nel tentativo di raggiungere l’Europa. Oltre 7.900 solo negli ultimi tre anni. Siamo saliti a bordo della Geo Barents di Medici Senza Frontiere per raccontare cosa succede qui ogni giorno

Di Ludovica Amici
Pubblicato il 12 Lug. 2024 alle 15:16

«Italy? I’ll be ok?». Sono le prime parole che sento urlare da una barca piccola in legno, celeste, sovraffollata. Le persone a bordo sono senza salvagente, e sono in balia della corrente. Ci troviamo sul rhib Orca, il gommone per il soccorso, il primo a entrare in contatto con i naufraghi insieme ad altre quattro persone del team di Medici Senza Frontiere. Sopra di noi vola il Seabird, l’aereo operato da Sea-Watch, impegnato in attività di ricerca e salvataggio nel Mediterraneo centrale, che segnala i casi in pericolo. Ci segue e aiuta nel salvataggio anche il rhib Mike. Ci avviciniamo alla barca per dare loro un salvagente e portiamo i naufraghi a bordo della nave Geo Barents. Sono quarantatre uomini, uno siriano, uno egiziano e tutti gli altri dal Bangladesh. Sono partiti alle 4 di notte da Zuwara, città costiera nel nord-ovest della Libia, e sono stati soccorsi dopo cinque ore trascorse in mare. Sono arrivati spaventati ed esausti. Ad aspettarli sulla nave c’è il team di Medici Senza Frontiere pronto ad aiutarli, ognuno con uno specifico compito durante la missione numero 56: ci sono medici, mediatrici culturali, responsabili di affari umanitari e della logistica, una psicologa. Fanno tutto il possibile per curarli, dar loro vestiti nuovi e cibo, e tutte le informazioni necessarie per far rispettare i propri diritti perché durante la visita medica si possono trovare i segni delle violenze o delle torture subite, circostanza che può cambiare le loro condizioni giuridiche. Civitavecchia è il porto assegnato dalle autorità italiane per il loro sbarco, a 965 chilometri da quello del soccorso: sono tre giorni di navigazione. È il tempo per cucinare insieme il riso, per giocare a carte, per imparare qualche parola di italiano. È per loro una parentesi di sollievo.

La rotta del mare
«C’era quella barca di legno, il mare era calmo, ed è andato tutto bene. Alcuni soccorsi appaiono stabili inizialmente ma possono trasformarsi in un disastro. Basta una persona a entrare nel panico, a muoversi male sulla barca per farla capovolgere e siccome non hanno i salvagenti possono morire in un secondo». Rob è il tecnico di ricerca e salvataggio di Msf sulla Geo Barents, è lui che guida il rhib dove mi trovo quando facciamo il soccorso. «Quando ho iniziato a fare Search & Rescue in mare nel 2016, anche su altre navi, mai avrei pensato che otto anni dopo queste tragedie sarebbero ancora esistite. Ero certo che l’Europa avrebbe trovato una soluzione più sicura e più umana alle persone in cerca di asilo. Un’alternativa a questa rotta rischiosa. Quando parlo con le persone, l’idea che hanno del Mediterraneo è quella di un luogo per le vacanze, ma la mia percezione del mare è cambiata molto perché so quanto questo sia diventato un enorme cimitero». Ogni naufragio rappresenta un fallimento collettivo, la dimostrazione dell’incapacità degli Stati di proteggere le persone più vulnerabili. Sono più di 7.900 i morti e i dispersi negli ultimi tre anni dopo aver tentato di attraversare il Mar Mediterraneo per raggiungere l’Europa e una vita migliore, secondo l’Agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati. Soltanto dall’inizio del 2024 ad oggi, sono 785 i morti e i dispersi nel Mediterraneo centrale. Una tragedia umanitaria. 

Partono su pescherecci, barconi fatiscenti e piccole imbarcazioni seguendo il nord. Alcune sono trappole per la morte ma spesso è la loro unica via d’uscita. Medici Senza Frontiere è impegnata in attività di ricerca e salvataggio dal 2015, lavorando su otto diverse navi, da sole o in collaborazione con altre ong. Da quando ha iniziato le operazioni a bordo della Geo Barents nel maggio 2021, ha soccorso 11.610 persone, ha recuperato tredici corpi senza vita e ha assistito al parto di un bambino. La nave, presa in affitto dalla ong, era prima un’imbarcazione utilizzata dalla società norvegese Uksonoy & Co per effettuare rilievi sismologici. 

Chi segue la rotta del mare lo fa per fuggire da una guerra, da eventi catastrofici, dalla povertà, dalla violenza, dalle persecuzioni politiche. «Quando arrivano a bordo le loro condizioni dipendono dai due viaggi che hanno affrontato: quello in Libia e quello nel mare. Spesso arrivano che hanno inalato del carburante, con ipotermia e molto stanchi. Alcuni sono stati detenuti in Libia con poco cibo e acqua, senza accesso a un’assistenza sanitaria, per cui spesso hanno anche problemi legati alle scarse condizioni di igiene», ci spiega Tiphaine Salmon infermiera di Medici Senza Frontiere. «Sono persone che subiscono violenze fisiche e sessuali, con insonnia e incubi causati da quanto hanno vissuto. Quando sono vittime di violenze, possono avere infezioni urinarie, malattie trasmissibili sessualmente, gravidanze indesiderate. La violenza sessuale non è solo l’atto in sé ma anche la costrizione a vedere qualcun altro mentre la subisce». Molti di questi casi sono a bordo durante questa missione. 

Violazioni dei diritti umani
Mentre si naviga qualcuno osserva il mare fuori dal ponte. C’è chi cerca di vedere le coste della Sicilia per sentirsi finalmente in Italia, in Europa. R. ha 23 anni, è del Bangladesh, viene da Rangpur. Nel suo Paese faceva il contadino ma a causa dell’esondazione del fiume ha perso la sua terra ed è rimasto senza lavoro e senza soldi. È un migrante climatico. Ha deciso così lo scorso marzo di intraprendere un lungo viaggio che da Dacca – facendo scalo a Dubai, Kuwait City e al Cairo – lo ha portato a Bengasi. Da qui ha viaggiato undici ore in macchina per arrivare a Tripoli dove è stato quarantacinque giorni in una casa molto piccola con altre persone. Senza acqua, cibo e con una sola luce. La polizia un giorno è entrata in casa mentre dormiva e lo ha ammanettato, lo ha minacciato con i fucili che se non avesse dato loro dei soldi lo avrebbero picchiato, e così è stato. È stato portato in prigione, dove ha subito varie torture, ed è riuscito a farsi liberare da alcuni parenti del Bangladesh che hanno pagato seimila dollari per liberarlo. Stessa sorte per i suoi compagni con cui condivideva la casa. Insieme a lui c’era T. che sta facendo questo viaggio per raggiungere il fratello e i cugini a Milano. Anche lui racconta delle manette ai polsi e delle bastonate. Un altro di loro quando viene soccorso ha ancora dei segni sulla fronte. Sono quasi tutti giovanissimi, c’è chi ha lasciato moglie e figli piccoli nei loro Paesi. Chi ha perso il lavoro a causa della forte persecuzione politica in corso in Bangladesh. Alcune famiglie si sono indebitate per liberare un figlio dall’inferno libico, coinvolgendo anche le rispettive comunità con una raccolta fondi. Le storie che ascoltiamo sono di una violenza inaudita. Considerati come prodotti, merce di scambio, sono invece prima di tutto esseri umani brillanti ed educati, con enorme desiderio di contribuire alla società.

«In questo mare, siamo testimoni della violazione dei diritti fondamentali: il diritto alla vita, alla libertà, al movimento», ci spiega Clarissa Renée Podbielski, Msf Humanitarian Affairs Manager a bordo della Geo Barents, che gestisce il team di affari umanitari occupandosi della protezione alle persone soccorse. «La maggior parte dei naufraghi che portiamo in salvo a bordo hanno subito violenze, soprattutto fisiche come la tortura e la violenza sessuale, ma anche psicologiche. Scappano da Paesi dove c’è una generalizzata violazione dei diritti umani. O dalle situazioni di conflitto. È comprovato che in Libia vengono commessi crimini contro l’umanità e la stessa cosa adesso sta accadendo in Tunisia. Secondo il diritto internazionale, è proibito espellere o riportare una persona in un Paese dove la sua vita e libertà potrebbero essere a rischio, dove i suoi diritti umani potrebbero essere violati. Ciò avviene sia in Libia che in Tunisia». Il razzismo e la violenza hanno registrato un’escalation all’inizio del 2023, un clima catalizzato da un discorso discriminatorio contro le persone in movimento dall’Africa sub-sahariana, pronunciato dal presidente tunisino Kaïs Saïed. Contemporaneamente le partenze dalla Tunisia sono aumentate.

I migranti dal Bangladesh sono stati tra i più numerosi nei recenti salvataggi e sbarchi in Italia e sono la maggioranza anche tra le persone soccorse durante questa missione, oltre a una proveniente dall’Egitto. Entrambi i Paesi sono stati aggiunti di recente (e non è un caso) all’elenco degli Stati d’origine sicuri per quanto riguarda la valutazione delle domande di protezione internazionale e verso i quali la procedura di rimpatrio diventa più semplice. «Pur essendo comprovato per il Bangladesh e per gli altri Paesi inclusi nella lista quanto siano Stati in cui esistono ampie violazioni dei diritti umani, come ad esempio il caso Regeni e quello di Patrick Zaky in Egitto», sottolinea Podbielski. «A bordo abbiamo avuto tantissime persone che avevano provato già varie volte ad attraversare il Mediterraneo centrale e poi sono state riportate indietro dalla Guardia costiera libica. Una persona che abbiamo ora a bordo ha provato ad attraversare questa rotta otto volte in dieci anni. Spesso quando vengono riportate in Libia rientrano nel ciclo di detenzione arbitraria e abusi, a volte vengono vendute e costrette in schiavitù per mesi finché non raccolgono il denaro sufficiente per liberarsi dai carcerieri e riprovare ad attraversare il mare».

«La più comune forma di estorsione in Libia, che sta diventando frequente anche in Tunisia, è che le persone vengono sequestrate, sul posto di lavoro o in mezzo alla strada, detenute e torturate. Spesso riprese con video o semplicemente con il telefono collegato al familiare nel Paese di origine che è costretto ad ascoltare o a vedere e gli viene poi chiesto di pagare una somma di denaro per liberare i figli dalle torture delle milizie», spiega l’attivista. «Molti sono ingiustamente processati per motivi politici o per la loro appartenenza a movimenti studenteschi. In Bangladesh, un Paese a forte prevalenza musulmana dove è in atto anche una pesante persecuzione politica, le persone vengono torturate solo perché di religione indù. Qualcuno a bordo ne porta le cicatrici: a un ragazzo hanno tagliato le dita di una mano».

«Sono tante le storie che ho ascoltato, sia in Libia che qui sulla Geo Barents, come quelle di ragazze di 13 anni incinte a seguito di molteplici stupri, a volte addirittura mesi o anni di stupro. O storie di intercettazioni in mare da parte della Guardia costiera libica. Come quella di una famiglia siriana, partita dal Libano per scappare dalla persecuzione subita nel Paese dai siriani, intercettata e portata in detenzione in Libia. Questa famiglia ha dovuto provare ad attraversare il Mediterraneo centrale tre volte: quando li abbiamo soccorsi uno dei figli, traumatizzato, era incontinente, e una delle figlie non parlava più. Abbiamo avuto a bordo un adolescente egiziano sordomuto che era fortemente discriminato per la sua condizione e l’unica cosa che voleva era accedere a una scuola dove gli insegnassero il linguaggio dei segni, perché nel suo Paese non era possibile. Per questo è dovuto scappare in Libia e ha attraversato il Mediterraneo su una barca di legno: per vivere una vita libera dalla discriminazione e per il desiderio di studiare», continua Podbielski. «Dovrebbero essere persone di enorme ispirazione per noi, persone che per trarsi in salvo, per sostenere la propria famiglia, per fare di meglio con la loro vita, corrono dei rischi altissimi e sopravvivono a trattamenti inumani». 

Invece di trovare soluzioni legali e sicure l’Unione europea sta lavorando duramente per rafforzare le sue barriere esterne nei confronti dei migranti richiedenti asilo. Ha fornito 59 milioni di fondi alla Libia per la gestione delle frontiere, compresa la consegna di motovedette, la fornitura di addestramento e altre attrezzature alle autorità libiche che in cambio intercettano le persone in mare e le riportano in Libia o Tunisia. Nel 2023 più di 17.190 persone sono state intercettate e rimpatriate con la forza in Libia dalla Guardia costiera libica, sostenuta dall’Unione europea. Dall’inizio del 2024 fino all’inizio di maggio sono oltre 5.207. 

Come sono cambiati i soccorsi
Sin dal giorno della partenza dal porto di Bari facciamo vari training per prepararci a qualsiasi scenario. Analizziamo il contesto politico in Libia e in Tunisia. Proviamo le pratiche di primo soccorso e i salvataggi in notturna con i gommoni. Il pattugliamento in mare avviene nel nord della Libia, chiamata Sar Zone, il team fa turni di 24 ore di avvistamenti in mare per distinguere se c’è un’imbarcazione in difficoltà con a bordo naufraghi, se sono solo pescatori o la Guardia costiera libica. Aspettiamo la chiamata di Claire Faggianelli, a capo della squadra per il soccorso che via radio ci avvisa di prepararci a salire sui gommoni. Sono le 9 di mattina del 13 maggio. «Seabird ci ha chiamati perché sorvolavano un caso in difficoltà e noi eravamo molto vicini alla barca. Le persone a bordo erano senza salvagente, e le abbiamo salvate», ricorda Faggianelli precisando di aver operato in acque internazionali e sottolineando cosa prevede la legge: «Il comandante di una nave ha il dovere di prestare assistenza a qualsiasi tipo di imbarcazione in pericolo nelle vicinanze della propria». «In questa area del mondo però, stranamente, questa legge marittima non viene applicata», continua l’attivista. «Quando ho iniziato queste operazioni, facevamo soccorsi anche a 24 chilometri dalle coste, adesso tra i 50 e i 60. Si obbligano le ong ad effettuare un solo salvataggio e a rientrare verso il porto assegnato dalle autorità. Spesso è lontano e richiede molti giorni di navigazione e non corrisponde alla definizione di “posto sicuro” che dovrebbe essere lo scalo più vicino, considerata l’emergenza. Siamo in mezzo al mare e siamo accusati di accogliere chissà quale nemico in Europa, solo perché aiutiamo le persone a non morire invece di abbandonarle al fato: non è una follia tutto ciò? Stiamo perdendo la nostra dignità umana». 

Sono stati dieci giorni intensi, di emozioni contrastanti, dove abbiamo visto da vicino cosa significhi sopravvivere al Mediterraneo centrale, la rotta migratoria più letale al mondo. Dopo tre giorni insieme con i naufraghi arriva il momento dello sbarco a Civitavecchia. Per loro è una fase molto delicata, determinante per il loro futuro. Ci salutiamo con un sorriso, qualche lacrima, con l’augurio che l’ultima parte del viaggio sia più leggera. Perché il loro viaggio non è ancora finito, ma loro sono resilienti, sono gli eroi del nostro tempo.

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